il venerdì, 25 agosto 2017
SCUSATE, ABITUALMENTE NON VESTO MARZOTTO. Intervista a Umberto Enrico Libero jr Marzotto
MILANO. In principio fu lui. Poi arrivarono Lapo e il principino Harry. Scapestrato quanto basta perché la cronaca gli attribuisca il titolo di “primo rampollo“di famiglia da sbattere in copertina. Primato che spetta di diritto a Umberto Enrico Liberojr Marzotto, figlio del conte Pietro. Ma, attenzione: se è vero che a volte in un nome si nasconde una storia, quel Libero è davvero un segno del destino. E se lo è guadagnato sul campo. Non ha ancora vent’anni quando abbandona gli agi di palazzo Marzotto per seguire De André, Vasco Rossi e le donne. Ma è una fuga a ostacoli. Con l’albero genealogico che si ritrova ad inseguirlo saranno prima i paparazzi, poi i giudici. D’altronde lo stile vita come Steve MeQueen non gli risparmia l’esperienza del carcere. Dalla sua Umberto Enrico Libero ha sempre rivendicato con schiettezza le scelte fatte, come «il diritto di essere un pessimo manager», motivo per cui incarichi nelle aziende di famiglia non ne ha mai avuti. E con altrettanta amorevolezza, nonostante le incomprensioni, ha parole di gratitudine per quel ricchissimo industriale che il destino gli ha dato per padre: il conte per antonomasia, quello che forse lo ha compreso più di altri. Ma a sostenerlo nei momenti difficili c’è sempre stata la poesia e la musica.
Risponde alle domande su WhatsApp sfoderando una voce ruvida da rocker e una gentilezza da lord inglese (in tasca ha il passaporto britannico). Si racconta da qualcheparte mentre veleggia a bordo del Koopmans 57, una barca di 17 metri sulla quale sta affrontando il secondo giro del mondo. Con lui c’è Ann, sposata 8 mesi fa a Granada. Ha due figli, poco più di cinquantanni e l’aria di chi ha finalmente trovato un approdo dopo la tempesta.
Partiamo dal principio, dai suoi primi ricordi, di quando era ancora in famiglia...«Sono tutti a Valdagno, provincia di Vicenza. Posto meraviglioso. Li mio padre aveva immaginato il progetto della “città sociale”. Al centro c’erano i lavoratori. Idea bellissima ma che non ebbe seguito. I primi a contestarlo furono la sinistra e i sindacati. Erano in tanti a percepirci come una “famiglia reale”. Combattevano quella che secondo loro era la sudditanza degli abitanti verso il Signor Conte. Quanto a me, a Villa Marzotto ho vissuto anni bellissimi».
Vacanze dove?
«A Cortina, dove c’era anche mio cugino Matteo. Ma era la stagione dei rapimenti. Poi si aggiunse la paura per le Brigate Rosse che minacciavano la nostra famiglia. Per precauzione noi ragazzi fummo spediti nei collegi di mezzo mondo».
A diciassette anni conosce Fabrizio De André.
«Vero. Gli avevo spedito una poesia intitolata Donne e vino. Ero poco più che diciottenne. Fabrizio è stato il mio maestro: un uomo con una cultura gi gantesca e un senso della poesia spettacolare. E poi caotico, difficile, nervoso, prepotente, ma generosissimo. È stato il mio secondo padre».
Grazie a lui comincia a frequentare grandi artisti come Bennato, Fossati, Lauzi...
«E Mauro Pagani, Lucio Dalla, al quale ho voluto un bene dell’anima. Poi Fernanda Pivano. La adoravo. Poco prima di morire espresse il desiderio di assistere ad un concerto della Pfm. Stava già male. La portai in braccio, su per le scale del teatro, per esaudire quel suo desiderio».
E sempre attraverso De André conosce Vasco Rossi. Diventate inseparabili. Lui la definì “una pecora nera con la passione per la moto”.
«Vasco è una persona buona dotata di grande disponibilità e generosità. Un genio capace di realizzare tutte le cose che ha mente. Con lui abbiamo condiviso tutto: non solo la moto, anche l’auto».
Dove andavate?
«Ovunque. A quel tempo avevamo acquistato un Maserati Quattroporte. Nelle nostre scorribande c’era anche Maurizio Lolli, diventato poi il suo manager (morto nel ’94 e a cui Rossi dedicherà Angeli, ndr). Una notte Vasco, appena finito un concerto, decide di mettersi alla guida del Maserati. Avevamo un po’ bevuto ma il Comandante era inamovibile. Alle 4 del mattino ci lanciamo a 250 all’ora sull’autostrada con Lolli che fa da navigatore: “Un po’ più a destra, adesso un po’ a sinistra”. Il Quattro sbanda sul guard-rail, con le scintille che illuminano la corsa. Finalmente arriviamo a Milano, ma a pochi metri dall’albergo il botto. Centriamo in pieno un palo della luce. Noi illesi e il Maserati Quattroporte distrutto».
Ancora la musica: nel 1986 partecipa a Sanremo 86 con la canzone Conta chi canta. Baudo la presenta dicendo “Non parlare male di papà che è amico mio”.
«Ecco, quella è stata proprio un’uscita di merda, una ruffianata per ingraziarsi mio padre. La verità è che mai avrei pensato di parlarne male, ho sempre avuto grandissima ammirazione per lui. Gli ho anche dedicato una canzone».
Un anno dopo, a Ferrara, le trovano addosso della cocaina. La arrestano accusandola di spaccio.
«Periodo complicato. Era da poco nato mio figlio. Ricordo che quando uscì di prigione mio padre venne subito a trovarmi. Gli chiesi scusa. Mi disse: “Mi dispiace per te, io ho le spalle larghe...”. Mi perdonò con quelle parole».
Poi il carcere...
«Esperienza durissima. In isolamento per 40 giorni. Fui arrestato insieme a un pezzo grosso delle Assicurazioni Generali. Una brutta storia».
Ora sta per pubblicare, con Sony Usa, un album dedicato agli indiani d’America: Pure Native American.
«Se tutto va bene dovrebbe uscire per Natale. È suonato interamente da nativi americani, con qualche grande nome come Jonny Rosch, componente dei Blues Brothers».
Segue la politica italiana?
«Sì, sono contento che Renzi abbia vinto le primarie e penso che il Pd sia l’unico partito serio. Mi preoccupa invece rimbarbarimento della vita sociale, la violenza sui social e il razzismo. L’ignoranza è dilagante».
In certi casi non dev’essere facile fare i conti con il proprio cognome.
«Mi fa tenerezza. Sono molti quelli nati nelle mie condizioni messi subito a lavorare nelle aziende di famiglia, o a far tirocinio nelle aziende degli amici di famiglia. Spremuti per vedere se hanno le palle per fare quello che fanno i loro padriIo mi sono salvato grazie alla musica e alla poesia, ed è per questo che il mio cognome non mi pesa, non mi pesa affatto».