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 2017  agosto 18 Venerdì calendario

Io, Garboli e altri amatissimi

SPERLONGA (Latina). Quando l’anno scorso è uscito, l’ultimo libro di Rosetta Loy, Forse (Einaudi), veniva presentato come la prima parte della sua autobiografia. Un racconto intenso, sincero in modo scorticante, che si ferma al 1957, anno in cui muore suo padre e nasce la sua prima figlia (dal marito Peppe Loy, fratello del regista Nanni, di figli ne avrà quattro). Così, quando te la trovi davanti in una giornata di luglio, nella casa di mare immersa tra i pini e gli ulivi, confinante con quella che fu della sua grande amica Natalia Ginzburg, la prima cosa che le chiedi è se poi ha scritto la seconda parte dei suoi ricordi: «Sì, cioè no», ridacchia mentre offre il caffè da una cuccuma verde a forma di berretto d’alpino. Cioè? «L’ho scritta, ma non è la seconda parte di Forse, è un altro libro. È un libro su Cesare Garboli». Parentesi: Garboli, celebre critico letterario scomparso nel 2004, è stato il secondo grande amore della scrittrice, per un certo periodo sovrapposto al primo. Il prossimo 9 settembre Rosetta Loy riceverà a Venezia il Campiello alla carriera, premio che vinse già nel 1988 con Le strade di polvere, grande successo tradotto in tutto il mondo. Classe 1931, la Loy ha esordito nel 1974 con La bicicletta eha scritto almeno tre capolavori: Cioccolata da Hanselmann.La parola ebreo e Nero è l’albero dei ricordi, azzurra l’aria. E poi ci sono i bellissimi racconti di All’insaputa della notte, ambientati tutti nel 1939, l’anno cruciale in cui una bambina di nove anni diventa la scrittrice che sarà per il resto della vita. «Scrivevo a mano, devo avere ancora un paio di quei libri in soffitta. A scuola ci facevano fare le “cronache“ma siccome a me non capitava nulla allora inventavo. Mio padre mi disse: se uno vuol fare lo scrittore deve essere bravo almeno come Alessandro Manzoni! Ma fu lui a regalarmi la prima macchina da scrivere a sedici anni. E, sebbene non volesse che sposassi Peppe, che veniva da una famiglia di sardi comunisti, alla fine accettò e fu felice. Era un uomo buono».
Dopodiché Rosetta Loy si alza e mi dice di seguirla in camera da letto: per terra ci sono due bustoni gonfi.
«Sono i libri di Garboli, siccome volevo scrivere un libro su di lui me li sono riletti tutti. Ha scritto cose meravigliose, folgoranti, anche se talvolta èun po’ prolisso. Ma del mondo aveva capito tutto».
Fuori, al sole, è un concerto di cicale. In lontananza si scorge la spiaggia che culmina nella famosa Grotta di Tiberio. Restiamo un po’ in silenzio, mentre Rosetta ravana nelle buste. Nel mucchio c’è anche il manoscritto del libro. «Lo sto correggendo».
Perché ha deciso di scrivere di Garboli?
«Mi sono resa conto che con lui sono stata abbastanza ingiusta. Ho sempre pensato che tutto quello che mi ha dato nella scrittura me lo dovesse. Oggi invece mi rendo conto che nel mio lavoro è stato essenziale, ha letto e riletto i miei libri, che pazienza! Chi altri lo farebbe?».
Era severo?
«Severissimo! Diceva: questo è bruttissimo! Non puoi scriverlo! E io ci tornavo su. Un critico così oggi è inimmaginabile. Non aveva paura della verità, anche se a volte era un po’ sbruffone. Ha litigato con tutti, poi faceva pace, anche con amici come Natalia Ginzburg. Quello che non gli stava bene lo scriveva, sempre».
Come lo conobbe?
«Credo che me lo presentò proprio Natalia, ma forse l’avevo visto prima e non mi era stato per niente simpatico, mi parve esibizionista. Natalia aveva un senso di possesso su di lui e mi vedeva come una rivale: le andavano bene le amanti di Cesare che però non fossero scrittrici! Natalia aveva una caratteristica: non recitava mai.ASperlonga ci sono venuta con lei, nel 1975, comprammo insieme queste due case. Era stupendo vederla al mare: non sapeva nuotare, eppure ci entrava dentro fino al collo».
Garboli come la conquistò?
«Io ho amato moltissimo mio marito, avevamo avuto una bella vita insieme, poi capita che a un certo punto ti innamori di un altro. Fin lì avevo resistito a molti corteggiatori, ma Garboli era bello, molto bello e molto intelligente, un po’ schizofrenico».
In che senso?
«Imprevedibile, pazzo. Dopo l’omicidio Moro, che lo sconvolse, lasciò Roma e si ritirò a Viareggio, e poi in campagna, in una casa umidissima e isolata che io odiavo e dove andavo poco. Secondo me il cancro gli è venuto in quella casa».
Nel libro racconta tutta la vostra storia?
«No, comincio dal 1982, salto un pezzo, era iniziata nel ’75-76. Per un certo periodo ho pensato che non avrei dovuto proseguire con quei ricordi, poi invece mi sono messa a scrivere. La mia memoria si è diluita in un racconto su di lui».
La memoria è la materia prima di tutti i suoi libri.
«La memoria è la mia vita. A me piace moltissimo ricordare. Quando mi toma in mente qualcosa che avevo dimenticato sono molto felice. Forse la faccio venire troppo fuori, dovrei guardare anche avanti».
Nella letteratura cos’è la memoria?
«È tutto, pensi a Proust. E Virginia Woolf? Gita al faro, un libro straordinario ancora oggi».
Perché ha dedicato quasi tutta la sua vita a narrare la Seconda guerra mondiale?
«È stato un momento importantissimo e terribile. Il primo bombardamento di Roma eravamo ancora lì, uscivamo dalle cantine con il rimbombo nella schiena. Cerchi la sicurezza negli occhi dei genitori e non la trovi, sono terrorizzati pure loro. Siamo una generazione con una gamba di qua e l’altra di là. Di quelli nati prima di noi alcuni si sono sacrificati, altri salvati, come Natalia o Elsa Morante». Che era un tipo meno facile della Ginzburg. L’ha conosciuta?
«Sì, era ostica. Un giorno mi chiamò per offrirmi uno dei suoi gatti. Aveva un sacco di gatti e cercava di piazzarli. Così ci incontrammo a Piazza del Popolo. Voleva studiarmi, vedere come avrei accolto Ciumaco, così si chiamava il gattino. Lo presi, ma non fu molto fortunato: io avevo i cani e finì che un giorno perse la coda con un morso».
C’è un foto che la ritrae con la Ginzburg e Fellini...
«Oh, erano molto amici. Federico andava spesso a casa sua a pranzo e un giorno Natalia ha chiamato anche me; mi sono precipitata, ero fanatica dei suoi film. Ho sempre amato il cinema. Mio marito per un certo periodo aveva lavorato con suo frateilo Nannido li seguivo sul set, conobbi Alida Valli e Yves Montand. Fellini era un uomo assolutamente semplice, simpatico. Io divenni abbastanza amica di Giulietta Masina. Oggi si danno tutti un tono...».
Come pubblicò il suo primo libro?
«Piacque molto a Niccolò Gallo che lo raccomandò a Einaudi, ma Gian Carlo Roscioni lo bocciò. Però fece una cosa importante: mi diede da tradurre Dominique di Eugène Fromentin, un libro bellissimo. Ci impiegai due anni e capii l’importanza di scegliere la parola giusta. Alla fine riscrissi il mio romanzo in terza persona, che finalmente uscì».
E di Giulio Einaudi che ricordo ha?
«Mi piaceva tanto, ha sacrificato la vita ai libri. Era partito da una famiglia importantissima e lo ricordo vivere modestamente in una casa più piccola di questa sala. Ma restava affascinante, caustico, riconoscevo in lui la stessa piemontesità di mio padre. Invece Cesare non lo amava per niente, gli dava fastidio, credo lo sentisse come un rivale».
Ha pubblicato con tutti i grandi: Garzanti, Rizzoli, Mondadori...
«I grandi di una volta... Oggi non esistono più quegli editori. Da Mondadori mi
sono fatta irretire, mi offrirono molti soldi. Ti fai comprare, stupidamente... Quando ti danno molti soldi pensi che ti considerino, invece non è vero. Gli scrittori sono molto vanitosi, me compresa. Frustrata a volte, ma vanitosa». Frustrata?
«Quando i libri non sono andati come avrei voluto. Nero è l’albero dei ricordi andò malissimo, fu stroncato. Renato Barilli scrisse che era un libro vecchio stampo. Ma lui stroncava sistematicamente tutti i miei libri».
Le critiche le fanno male?
«A volte mi fanno rabbia. Per La parola ebreo qualcuno scrisse che io, non ebrea, non avrei dovuto scrivere un libro sulle persecuzioni razziali».
Le strade di polvere però ha avuto molto successo...
«Non so da cosa dipenda. Coincidenze. Certi libri incontrano per un momento il gusto della gente».
Chi sono stati i suoi amici?
«Tanti. Giorgio Pressburger, che mi invitò a Budapest, un uomo fantastico, scrittore, drammaturgo con una storia terribile, perse un fratello amatissimo, il padre li salvò dai nazisti ma poi fuggirono anche dall’Ungheria. Corrado Stajano, che è uno scrittore di un rigore assoluto ma capace di rendere vivo quello che racconta. E poi gli amici di Cesare: Franco Fortini, Mario Soldati, che mi presentò al Campiello. Era uno spasso...».
Non ha mai partecipato molto alla mondanità letteraria, come mai?
«Scrivere mi piace moltissimo, tutto il resto no, lo detesto. Non ho fatto una vita da intellettuale e per fortuna non ho mai avuto problemi di soldi. Scrivo perché mi piace, e basta. Scrivo ancora tutti i giorni e se non scrivo sono un po’ infelice. Infatti adesso che ho finito il libro su Cesare ho un po’ un problema. Cosa scrivo?».
Intanto cominciamo a leggerlo. E speriamo esca molto presto.