il venerdì, 18 agosto 2017
Ho fatto sudare Pelé
SEATTLE. Se ne andò per sempre dal campo, quarant’anni fa. Il 28 agosto 1977. Vincente, ma senza gol. Si liberò della sua maglia e la lanciò all’indietro, come a voler dire: stavolta è finita davvero. Aveva il numero 10 e il nome Pele. Gli dei non hanno bisogno dell’accento. Si alzarono molte braccia verso quell’eredità, anche se ancora nessuno sapeva che valeva quanto uno schizzo di Van Gogh. Jimmy aveva vent’anni, si attardò, era stanco, aveva marcato Pelé, non lo aveva fatto segnare, ma fece un ultimo scatto e afferrò quella che per l’America era solo una casacca sudata, ma per il resto del mondo una Sacra Sindone. Il numero 10 più famoso del mondo finì nelle mani del giocatore più sconosciuto del mondo. Una riserva, addirittura. C’erano 37 mila spettatori a Portland per la finale del Soccer Bowl, campionato nordamericano, Cosmos di New York contro Seattle Sounders. La squadra dei ricchi e famosi, di Pelé, Beckenbauer, Chinaglia, contro quella degli operai del pallone. I primi arrivarono allo stadio in limousine, gli altri in corriera, Pelé con le guardie del corpo. E alla fine i Cosmos ce la fecero: 2-1. Diventarono campioni. A segnare furono l’inglese Steve Hunt e l’italiano Giorgio Chinaglia, ma a essere portato in trionfo, mezzo nudo, fu O Rei, il grande seduttore, l’uomo dai tre Mondiali, dai mille gol, quello arrivato dal Brasile con una mission impossible: convertire l’America al soccer. Quel ragazzo che quarant’anni fa prese la sua maglia ora ha 60 anni. Si chiama Jimmy McAlister, fa l’allenatore di calcio, perché è chiaro che se il destino ti consegna la bellezza, tu non puoi scartarla. Jim è l’ultimo uomo che ha marcato Pelé, che gli ha negato il gol, ma non se vanta. Sliding balls. «Giocai per caso, perché i due terzini davanti a me si erano infortunati. L’allenatore mi aveva detto: non dargli il tempo di girarsi, se riceve palla stagli appiccicato, anzi dagli pure un calcione, fagli sentire che ci sei, non lasciarti intimidire. Io una scarpata a Pelé? Mai e poi mai. Un tifoso non azzoppa il suo idolo. Del calcio brasiliano non sapevo niente, in tv allora non si vedeva, ma mai nessun calciatore si era guadagnato la copertina di Sports Illustrated, la bibbia dello sport Usa, e se non eri una star non ci finivi lì. Mi avessero riempito la testa di tattiche, mi avessero detto ecco come devi fermare la leggenda, sarei andato in confusione. Guadagnavo 1.800 dollari al mese, spiccioli. Pelé sei milioni per tre anni». Il suo non era un contratto da atleta, ma da performing artist, da professionista del palcoscenico. L’avvocato Norman Samnick, che lo ideò, aveva appena concluso quello di Dustin Hoffman per il film Tutti gli uomini del presidente, e per la firma si era dovuto anche scomodare il segretario di Stato, Henry Kissinger, altrimenti il Brasile non avrebbe lasciato andare quel patrimonio storico-sportivo dell’umanità. Nessun giocatore nero in America incassava così tanto, nemmeno i più famosi: il campione più pagato era O.J Simpson nel football Nfi, 700 mila dollari l’anno, seguito da Wilt Chamberlain, basket Nba, con 600 mila; anche KareemAbdul Jabbar, la star dei Los Angeles Lakers, il più famoso gancio-cielo del mondo, nominato quell’anno miglior giocatore, era fermo a 600 mila. Per non parlare del dio del baseball, Hank Aaron, appena 200 mila dollari di stipendio, nonostante nel ’74 avesse battuto il record di Babe Ruth con 715 fuoricampo.
Ma Jim tutte queste cose non le sapeva. Era cresciuto giocando a pallone a scuola, in una comunità con molti scozzesi e irlandesi, a Seattle, sul Pacifico, patria di un altro Jimi (Hendrix) che suonava la chitarra in modo strano: «Avevo rispetto per Pelé, io ero un ragazzo di vent’anni che poteva a malapena permettersi un’auto, lui una celebrità, con lo stile del top-businessman, ai tempi il suo nome era più famoso della Coca-Cola. Va bene, non era più quello di una volta, ma nemmeno un patetico Buffalo Bill, si prendeva molta cura del suo corpo, cosa che qui non faceva nessuno, ed era sempre una forza fisica. Non dimenticherò mai gli occhi, vedeva tutto, intuiva i movimenti, la sua intelligenza in campo era fantastica. Io ero una giovane promessa del soccer, reclutata in un liceo di Seattle, uno dei pochi calciatori indigeni in una lega popolata di campioni stranieri, ero veloce, ma non statuario. Mi stampai su di lui, non gli dissi un parola, voglio dire nemmeno una parolaccia. Muto, gli augurai solo una buona partita, ma non era vero; mentre gli dicevo in bocca al lupo, dentro di me pensai: speriamo che non voglia finire in bellezza, che non si avvicini troppo alla porta, che non mi ridicolizzi rovinandomi la carriera. Avevo paura di finire io sul viale del tramonto, non lui: solo che io ero agli inizi, alla prima finale. Mi salvò l’incoscienza e la voglia di non farmelo scappare».
Pelé aveva 37 anni. I suoi Cosmos viaggiavano sul red carpet: avevano l’aereo charter e allo Studio 54, la mitica discoteca dove Bianca Jagger per il suo compleanno entrò su un cavallo bianco, per loro c’era sempre un tavolo prenotato. Non era una squadra di calcio, ma di celebrità. Robert Redford,Mick Jagger, AndyWarhol e persino il presidente Gerald Ford facevano a gara per farsi fotografare con Pelé. Quel ’77 fu un anno strano, successe di tutto: New York si fermò per un blackout, nevicò a Miami, morirono Elvis Presley e Groucho Marx, Jimmy Carter si insediò come presidente degli Stati Uniti, al cinema uscì Guerre stellari e con John Travolta salì la Febbre del sabato sera. Warhol su commissione del mercante d’arte Richard L.Weissman realizzò una serie di ritratti sportivi, tra cui Pelé, Muhammad Ali, Chris Evert.
Non solo la faccia, ma anche la maglia di Pelé comincia a valere molto. E a essere oggetto di collezionismo. O Rei era ormai un’icona. Anche Weissman vive a Seattle, e ha la serie di Warhol appesa in una galleria circolare che si è fatto costruire nella sua villa nei boschi: «Pensai che lo sport non era mai entrato in un museo e che sarebbe stato bello se la gente avesse capito che anche giocare a calcio, a tennis, dare pugni, erano forme d’arte. Warhol andò a vedere qualche partita di Pelé e lo dipinse come un sovrano, con un pallone che gli faceva da corona. Quel quadro mi è stato rubato con tutta la collezione, ma la polizia lo ha ritrovato. Può valere dai cinque ai venti milioni di dollari. Il re del calcio ritratto dal re della pop art».
E quella maglia che Jimmy riuscì ad afferrare dov’è e quanto vale? Per fare paragoni: la divisa da gara dei New York Yankees indossata nel 1920 da Babe Ruth, uno dei più grandi giocatori di baseball di tutti i tempi, è stata battuta all’asta per 4,4 milioni di dollari (più di 3,7 milioni di euro). E la canotta di Michael Jordan nella sua ultima partita di regular season con i Chicago Bulls è stata venduta al prezzo di 173.240 dollari, mentre quella con il numero 9 della nazionale americana è stata comprata a 273.904 dollari.
Quella maglia numero 10 è ancora un sudario. Jimmy non l’hai mai lavata. Faceva caldo quell’agosto 1977 e Pelé sudò molto. Ci sono ancora le chiazze. A qualcuno farà schifo, per Jimmy è profumo da campione. «Mia madre mi comprò un manichino e la misi li, sotto vetro, dentro casa. Un giorno trovai mio figlio che se l’era messa e ci giocava nel fango e dissi, beh, ragazzo mio, forse è il caso di starci più attenti, così andai in banca e la chiusi in una cassetta di sicurezza. È il mio tesoro. Ogni tanto mi arriva qualche offerta, per questo ho paura di tenerla a casa, ma non la vendo. Per me rappresenta un’epoca». Nel mercato della nostalgia vale una fortuna: nel 2002 la maglia che Pelé indossò nella finale dei Mondiali del ’70 è stata venduta da Christie’s per 260 mila euro, messa all’asta dall’ex difensore azzurro Roberto Rosato. Nell’era del calcio postmoderno, dove il cartellino di Neymar vale un quadro di Van Gogh, non deve sorprendere che l’intera collezione privata di Pelé (trofei, foto, oggetti personali, circa duemila pezzi) sia stata venduta all’asta per 4,2 milioni di euro dagli specialisti americani della Julien’s Auction. La vendita più ricca di sempre nella storia dei memorabilia del pallone. Anche se priva di quell’ultima maglia verde dei Cosmos, rimasta a Seattle.
Jimmy McAlister ha anche lui un’anima vintage. «Quell’anno vinsi il titolo di miglior debuttante. Grazie al fatto che avevo fermato Pelé. In Nazionale ho sei presenze, mi sono ritirato nell’86. Però ho giocato contro Crujff e Pelé, e con George Best. La Santissima Trinità del calcio. E a fine partita quel giorno Pelé mi fece i complimenti: nessuno mi ha mai marcato così bene. Magari era l’ultima bugia della sua carriera, però quando quella notte lo vidi ballare il samba in un locale, mi dissi: posso morire contento. La gente disse che quella eredità era un passaggio di testimone: il grande campione che lanciava la sua maglia al ragazzino americano. Beh insomma, c’era un po’ troppa fantasia, io non l’ho vissutà cosi. Non tradirò mai quel ricordo vendendolo, per me sarebbe un sacrilegio. A me basta sapere che quel giorno, in quella partita, in quel lungo addio c’è stato un 10 anche per me».
Emanuela Audisio