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 2017  agosto 24 Giovedì calendario

Renato Zero: «Incontrai Lucio Dalla in ascensore: per me fu come guardarmi in uno specchio pulito»

Se le dico “ricominciamo da zero” lei si alza, spegne il registratore e giustamente se ne va? «Ma no, ma no. È il mio numero, è un bel numero, non ha inizio e non ha fine, ma da lui ha origine tutto». Allora possiamo dirlo: 2017, si ricomincia da Renato Zero. Che, stavolta, ci regala uno spettacolo, “Zerovskij... solo per amore”, ambientato in una stazione ferroviaria stile liberty dove lui è il capostazione, con un’orchestra di 61 elementi, 30 coristi, 12 ballerini, 7 attori e 19 canzoni inedite, e dirige il traffico della vita e della morte, passando per l’amore, l’odio e il tempo. Sotto la supervisione di Dio. Roba tosta che, se usata per raccontare una parabola da romanzo come quella di Renato Fiacchini, va maneggiata con cura. E levità.
Però poteva fare Dio invece che il capostazione?
«Preferisco il capostazione, sono più tagliato. Adoro le ferrovie, gli scambi, i binari. Da bambino collezionavo i trenini Marklin».
Ce li ha ancora?
«Ne ho portati a destinazione pochi, molti se ne sono andati con qualcuno, erano così belli».
Gioco per gioco, facciamo un giochino. L’anno in cui vede la luce lei, 1950, nascono la Cassa del Mezzogiorno e i Club Méditerranée. Chi ha fatto più male all’Italia?
«La Cassa non ha funzionato dal giorno dopo».
Sempre nel ‘50 sono nati Angelo Branduardi...
«Lo adoro, è un poeta, ha l’eleganza e la delicatezza della musica e delle parole».
Sabina Ciuffini.
«I quiz di Mike Bongiorno erano una delizia, nessuno saprebbe più rispondere».
Antonio Di Pietro.
«Chi altri?».
Vallanzasca.
«Si chiama pure Renato, ‘na sfiga».
Anche Brunetta è Renato, pure lui del 1950.
«Non c’erano un po’ troppi Renato in quell’anno?».
Ma lei è birichino, lo è stato anche da bambino?
«Ero un bambino mascherato da adulto. Sono nato a Roma, in via Ripetta, dove vivevano principi, marchesi, alta borghesia e pochi bimbi. Ogni giorno mia nonna mi portava da parenti e amici, tutti anziani, e io facevo il possibile per non deluderli, ero tutto carino, compostino”.
A che giochi giocava?
«Ho studiato dalle suore del Sacro Cuore della Trinità dei Monti, bambine e bambini insieme: si faceva il gioco della campana».
Leggeva fumetti?
«Mi piaceva Paperino».
Mai raccolto le figurine dei calciatori Panini?
«Facevo la collezione degli uomini illustri. Il più ricercato era Dante, non c’era mai nelle bustine, era pagato anche 5 mila lire. Poi quando finalmente lo trovo, la casa editrice chiude e così Dante non vale più una cicca». Un bambino compostino, come dice lei. Però ha fatto presto a diventare scompostino.
«A 13 anni l’ospedale San Giacomo acquista il palazzo dove abitiamo e vengo catapultato in una borgata di periferia, alla Montagnola».
Lì ce n’erano tanti di bambini.
«Sì, ma fu un trauma. Mia nonna, mia mamma, i tre fratelli di mia mamma, scapoli, pensando di fare una cosa buona, continuavano a mettermi tutti ‘sti vestiti coi pizzetti, le giacche all’inglese con i bottoncini, il fiocchetto sulla camicia. Può immaginare gli altri ragazzini... Prima che io mi vestissi strano, ero già strano perché la mia famiglia mi aveva messo questa cornice».
Però ha imparato presto a incorniciarsi da solo.
«Il mondo dello spettacolo l’ho amato da sempre. Nel ‘54 in casa c’era già il televisore. Io, avrò avuto 5 anni, guardavo Giancarlo Cobelli che faceva il mimo, Raf Vallone nel “Mulino del Po”, Paolo Stoppa nel ruolo di Carlo Day, Mario Scaccia nella “Pisana”, Ernesto Calindri, Mario Valdemarin. Pensavo “voglio diventare come loro”». Ma loro non sono mai andati in giro di sera vestiti strani.
«A 14 anni volevo uscire dalla Montagnola ed entrare nella Dolce Vita. Dovevo farmi notare e il travestimento mi veniva naturale».
Alla fine c’è riuscito.
«Mi adattavo facilmente a tutto, grazie alla mia infanzia nella Roma altolocata e poi nella Roma di periferia. Andavo a Cinecittà o a piazza Navona, davanti alla Rai o alla Rca e lì incontravo un mondo. Non ero sfacciato ma non ero timido e, forse perché stavo simpatico e apparivo originale, riuscivo a conoscere molta gente e a trovare qualche pigmalione».
Chi?
«Che so, la mamma di Sophia Loren, Romilda, mi accompagnava ai party». Come l’ha conosciuta?
«La conobbi. Pensi che Sophia me la presentò Armando Trovajoli, mica Romilda. Poi, diventati amici, un giorno lei mi dice “ma tu sei quel Renatino che portava in giro mammà?”».
E dove andavate con la signora Romilda?
«Per esempio a casa di Carrol Baker a Trinità dei Monti o a casa di Sergio Leone all’Eur. Una sera stavamo aspettando Alberto Sordi per la cena, era in ritardo. A un certo punto arriva e Sergio mi fa “ti presento Alberto Sordi”, lui mi dà la mano e batte i tacchi. In quella Roma lì succedeva così».
L’incontro che non può dimenticare?
«Con Lucio Dalla. Me lo trovai davanti nell’ascensore della Rca, mi sarei messo a piangere. Pensai: “Ecco, non sono più solo”. Fu come guardarsi in uno specchio, ed era uno specchio pulito».
Piazza Navona, allora, era il crocevia degli incontri, una specie di ufficio del lavoro: eravate tutti in fila, lei, Alessandro Haber, Pino Daniele per cercare di accalappiare l’attenzione di Zeffirelli o Bolognini. Lei accalappiò Enrica Bonaccorti, con la quale ebbe una storia.
«Ancora oggi è adorabile».
Quanto ha contato il sesso nella sua vita?
«L’ho sempre vissuto come una specie di impedimento, una sorta di baratto. Ti fa cedere una parte di te».
Non si è mai accasato.
«Paolo Stoppa e Rina Morelli, grandi italiani, abitavano in due appartamenti diversi, uno sopra, l’altro sotto. Avevano tracciato un bel confine del vivere assieme». A chi ha dato il primo bacio, serio?
«A una ragazzina che si chiamava Rita, avevo 17 anni».
E il primo rapporto sessuale?
«Con me stesso, ma è un esercizio cui si deve stare attenti, non bisogna affezionarcisi troppo, anche se, pen
sandoci, è il modo migliore per non dover dire grazie a nessuno».
Be’, lei non mi sembra si sia affezionato.
«Esercitare il sesso da giovani fa in modo che si eviti, a 60 anni, di fuggire con una ragazza moldava. I compiti bisogna farli al momento giusto. Io credo di averli fatti bene».
Ha amato più le donne o più gli uomini?
«Ho amato le persone»
Le piacciono le orge?
«Per carità, negli Anni 70 vivevo con un’amica americana in pieno centro a Roma. Quando arrivava una band nuova, la ospitava e se la ripassava tutta. Una sera cerco di entrare e “ah, oh, oh, ah”, meno male che accendo la luce, sennò rischio di calpestare un tappeto di corpi nudi. Uno spettacolo indecoroso...».
Lei è un perbenista.
«Ho avuto tante occasioni, sono stato molto richiesto, ma ho sempre mantenuto un certo senso estetico».
I politici l’hanno mai cor teggiata?
«Come no».
Chi?
«Di sinistra, di centro, di destra, di sopra, di sotto. Non mi piace la loro compagnia»
Il posto più strano dove l’ha fatto?
«Sono uno che vuole stare comodo. Non sono tra quelli che cavalcano la lavatrice o cercano l’inclinazione giusta del tetto. La pericolosità è già insita nel sesso, se ci mettiamo pure il paracadutismo...».
Che rapporto ha con”lui”, moravianamente parlando?
«Non sono così assiduo nella conversazione con il mio “minore”, perché mi comporta una serie di complicazioni. Col tempo il sesso pren
de una strada, il cuore un’altra».
C’è tempo e tempo. Si sente più presente, più passato o più futuro?
«Essere presente nel tempo che vivo adesso non paga, meglio creare un ponte tra passato e futuro: questo aggiusterebbe anche il presente».
In che epoca le sarebbe piaciuto vivere?
«Nel 1700. Un’ottima annata».
Chi vorrebbe incontrare dei personaggi del passato?
«Pier Paolo Pasolini. Allora mi sono sempre rifiutato di conoscerlo perché mi era stato descritto in maniera un po’ cruda. Ero mol
to giovane, ma figuriamoci se uno come me si metteva a credere alle dicerie. Però quando vivi in certi ambienti devi difenderli, non puoi stringere alleanze con il nemico. E, in quegli anni, Pasolini era considerato un nemico di quelle periferie, di quel mondo. Oggi mi rendo conto che non era così, per questo vorrei parlargli».
Lei ha amato ed è stato amato da molte per-
sone. Ha mai odiato nessuno?
«È un sentimento che non frequento, però non sopporto le ingiustizie, allora posso diventare vendicativo». Quando le è capitato?
«Con mio zio, don Pietro. Tutte le estati andavamo in vacanza da lui a Esanatoglia, gli facevo da chierichetto, gli volevo un gran bene. Un giorno fu trasferito in un piccolo agglomerato di case, diceva Messa solo per una nobildonna. Una sorta di esilio. Un’ingiustizia. Tempo dopo i notabili di Esanatoglia mi offrono le chiavi del paese. Dico “accetto a patto che voi facciate un monumento a mio zio davanti alla chiesa dove lui ha militato per 35 anni”. Dopo un anno andai a scoprire il busto». Anche le vite da romanzo finiscono. Toccandosi i cabasisi, come immagina il suo funerale?
«Una giornata di sole dove tutto è perfettamente in ordine».
Che musica vorrebbe suonassero in chiesa?
«L’Ave Maria di Schubert».
E chi potrebbe cantarla?
«Uno bravo. La prima emozione musicale della mia vita è stata in chiesa, da piccolo, con l’organo. Ero affascinato da chi sfiorava i tasti, inseriva registri, faceva correre i piedi sulla pedaliera. Non l’ho mai dimenticato. Da allora la mia preoccupazioanche nelle vesti di clown, è sempre stata quella di essere in ordine, di avere l’atteggiamento giusto sul palcoscenico giusto. Perché ciò che fa la differenza in un artista non è arrivare all’Olympia, ma riuscire a far diventare l’Olympia la propria casa».
Chi non perdonerebbe se non partecipasse al suo funerale, parenti a parte?
«Ho tanti amici».
Un nome?
«Roberto D’Agostino. Gli voglio bene, siamo stati ragazzi insieme al Piper, il salotto della diversità, con le sorelle Bertè, con Caterina Caselli, con Patty Pravo. Oggi, quando lo incontrano, molti provano fastidio, chissà cosa temono. La verità è che pochi lo conoscono, e invece varrebbe la pena conoscerlo meglio».
Che cosa le direbbe San Pietro?
«Sicuramente che non ho le chiavi per aprire quella porta. Ma io porterò una chiave di violino e riuscirò a entrare lo stesso».
Come immagina l’aldilà?
«Le racconto un mio sogno. Sono in una specie di aeroporto, c’è una cabina telefonica. Comincio a chiamare casa mia, le mie sorelle: “Pronto, sono Renato”. “Renato chi?”. “Io, Renato”. Niente. A un certo punto, un sole parlante attraversa la scena e mi dice: “Non farti domande, segui il flusso”. Davanti a me c’è una scia luminosa. Ecco, penso che noi tutti finiremo in una grande nebulosa, dove probabilmente non riconosceremo nessuno di quelli che abbiamo incontrato, ma sarà una nebulosa che ci accoglie tutti. In serenità».