Sette, 10 agosto 2017
Luigi Barzini (senior). Imprese e cadute del maestro degli inviati
L’IMMAGINE RISALE AL 1947, e mostra Luigi Barzini dopo l’epurazione per essersi compromesso con il fascismo. È riuscito a tornare a lavorare al Corriere di cui era stato il numero uno per 22 anni, contribuendo con le sue corrispondenze e i suoi scoop ad aumentarne le copie vendute e la fama. È rientrato in via Solferino, ma non sta in redazione, l’hanno sistemato nella biblioteca-archivio del giornale: prima, negli anni d’oro, personaggio da esporre, ora uomo scomodo, da nascondere. Sta scrivendo le sue memorie, Vita vagabonda, l’ultimo libro. È un uomo stanco, amareggiato, deluso, che dopo la morte della fedele moglie Mantica vive in una camera ammobiliata combattendo contro un’insonnia che lo perseguita. Morirà pochi mesi più tardi, il 6 settembre 1947, dopo aver assunto una dose eccessiva di sonniferi, all’età di 73 anni, non solo dimenticato, ma ignorato da tutti. Fine dolorosa e ingiusta per un giornalista che aveva vissuto la storia in prima persona e l’aveva raccontata al mondo.
NATO A ORVIETO, da una famiglia di sarti, era entrato al Corriere della Sera nel 1899, a 25 anni. Fu il fondatore stesso del giornale, Eugenio Torelli Viollier, a volerlo e a strapparlo al Fanfulla, un foglio satirico per il quale Barzini, abile disegnatore, firmava i cosiddetti articoli pupazzati, vignette umoristiche accompagnate da brevi testi. Accadde dopo la pubblicazione del suo primo scoop: un’intervista ad Adelina Patti, celebre cantante d’opera, considerata da Rossini la più grande di tutte le epoche, che fino a quel momento non si era mai concessa ai giornalisti. Luigi Albertini, ancora segretario di redazione, lo raggiunse a Roma e lo portò a Milano, da dove lo spedì subito a Londra come corrispondente. Da allora sotto l’ala di Albertini, diventato nel frattempo direttore, Barzini comincia a volare. E nell’arco di due decenni costruisce la sua fama. Racconta il conflitto angloboero, la rivolta nazionalista dei Boxer in Cina, la guerra russo-giapponese, del cui imminente scoppio era venuto a sapere per caso durante un ricevimento all’ambasciata nipponica a Pietroburgo diventando così l’unico giornalista occidentale presente alla caduta di Port Arthur e il testimone d’eccezione della battaglia di Mukden, in Manciuria, di cui riuscì a trasmettere la cronaca dopo una cavalcata di ore per trovare un telegrafo, arrivando esausto e in fin di vita. Cronista del volo di Geo Chavez, delle prove dei Led Zeppelin, della Prima guerra mondiale.
Quando nel 1922 lascia il Corriere è una leggenda vivente. Un «pittor di battaglie», così lo aveva definito d’Annunzio, che aveva stretto la mano a Roosevelt e allo zar di Russia, che era stato decorato da capi di Stato e monarchi – da commendatore della Legion d’Onore a Knight of the British Empire, con l’investitura diretta del re d’Inghilterra.
Se ne va da via Solferino per fondare a New York il Corriere d’America, rivolto agli emigrati italiani, giornale che dirige per una decina d’anni senza raggiungere il successo sperato.
ED È ALLORA, TORNATO IN ITALIA, che la sua stella si offusca. Dopo una breve direzione de Il Mattino di Napoli, comincia a collaborare con Il Popolo d’Italia, fino ad arrivare, su designazione dello stesso Mussolini, a dirigere la Stefani, l’agenzia di stampa ufficiale dell’epoca. La morte del figlio Ettore a Mauthausen lo getta in un buio esistenziale dal quale non sarebbe più uscito.
Se dalla vita di Luigi Barzini non si possono cancellare gli errori, però, così non si possono cancellare nemmeno i successi. Grazie a lui gli italiani hanno potuto conoscere popoli e luoghi fino ad allora sconosciuti; il giornalismo è diventato accessibile a tutti perché ripulito da aggettivi, frasi ampollose, retorica (il cosiddetto «barzinismo»); il mondo si è emozionato seguendo imprese considerate impossibili. Ma soprattutto Luigi Barzini ci ha lasciato la forza di accettare gli alti e bassi della vita, le ombre che oscurano la luce. Quella luce che non basta una fotografia a far dimenticare.