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 2017  agosto 10 Giovedì calendario

Mogol: «Ho rischiato di chiamarmi Zippo»

Oggi, nella pace odorosa della campagna umbra, ne parla con serenità. Ma più di cinquant’anni fa, all’inizio della sua carriera, Mogol rischiò il disastro. «Bisognava scegliere un nome d’arte e così inviai alla Siae un elenco di possibilità. Tra queste c’era anche Zippo. Per fortuna non lo accettarono». Ma ve lo immaginate? I versi più famosi dell’italiano contemporaneo (“continuai a camminare lasciandoti attrice di ieri” I giardini di marzo o “come può uno scoglio arginare il mare” Io vorrei... non vorrei... ma se vuoi) firmati da uno che porta il nome di un accendino? Non è una faccenda da poco. A quasi 81 anni (li compie giovedì prossimo), dopo milioni di dischi venduti in tutto il mondo, una scuola di formazione internazionale e persino una candidatura al premio Nobel, Giulio Rapetti ne è convinto: «Il successo nella musica non è solo tecnica o voce. È la capacità di emozionare davvero. Pochi ci riescono. E sì, ci vuole anche il nome giusto».
Un nome, Mogol, che oggi compare anche sulla sua carta d’identità.
«Sì, ci sono riuscito. All’epoca era normale trovarsi un nome d’arte, ma a me Mogol non piaceva: temevo che lo associassero a qualcosa di
orientale, in un periodo che invece era sedotto dall’Occidente, dall’America.»
Quando ha avuto la sensazione di essere diventato davvero Mogol?


«Ce l’ho ogni volta che faccio unaserata e faccio scorrere alle mie spalle il testo di una mia canzone. Mi ritrovo di colpo duemila persone che cantano. Le mie canzoni le cantano tutti: giovani, vecchi. Poi, certo, tutti pensano a Battisti ma ogni volta che intonate Una lacrima sul viso state cantando Mogol. Quando accennate a Oro di Mango, state cantando Mogol».

E per capire bene le dimensioni (anche economiche) di questo successo bisogna venire qui, vicino a Amelia, nel suo piccolo regno: il centro europeo di Toscolano, Cet (alta scuola di formazione musicale), è anche un teatro, una serie di residenze per artisti e ospiti paganti, due piscine, palestra, un maneggio, un teatro e persino una chiesa che l’autore ha fatto riprodurre secondo gli schemi duecenteschi, decorazioni in foglia d’oro comprese. Ed è anche la dimora che il poeta divide con la giovane moglie Daniela Gimmelli.
La seconda consorte, vero? Perché prima c’è stata Serenella e poi ha avuto due compagne, se non sbaglio.
«Due?! Eh, ne ho avute di campagne. Pardon, di compagne». “Campagne/compagne” è un lapsus molto mogoliano. Come “la mia spesa/ la mia sposa”.
«Con Il nastro rosa, Una donna per amico è una delle canzoni più vere che io abbia mai scritto. E per questo non ne parlo».
Ma erano tutte vere le sue canzoni: lei dice che scriveva parlando di sé.
«Scrissi Una donna per amico per Adriana. Era un’amica per davvero, una che al bar, ogni giorno, continuava a supplicarmi di scrivere una canzone per lei. Un giorno la accontentai. Tutto qui. Il vero segreto di questo successo è la semplicità. Delle parole, delle situazioni. Ma anche dell’amore, della vita, della morte.»
Quella semplicità che le hanno rimproverato i critici più intransigenti?
«Tutto è cominciato quando hanno preso a demolire la cultura popolare. Mi dica: qualcuno oggi fa musica dodecafonica? No e questo è perché non trasmette emozioni. Solo quello che emoziona resta. Ancora: tutti oggi quando leggiamo Dante o Leopardi ne restiamo folgorati. Ma Foscolo, che emozioni ti dà? Era un poeta storico e importante, certo. Ma quello che resta, resta perché è cosa viva. L’accademia ha cominciato a fare a pezzi la cultura popolare perché è un patrimonio che non ha mai voluto conoscere a fondo.»
Le femministe si infuriarono per “motocicletta dieci HP/ tutta cromata/ è tua se dici sì” (Il tempo di morire).

«Si infuriarono stupidamente. Io sono stato il primo a raccontare, ancora una volta con semplicità, il desiderio maschile. Anche quello dei giovanissimi. Un’estate, a Rimini, mio padre andò a farsi curare una nefrite e mi portò con sé. Avevo quattro anni ma ricordo bene la figlia della pensionante, una rossa con due seni magnifici. Ecco, ho raccontato tutto ciò. La vita, per farla breve.» Come “la paura di esser preso per mano” (Pensieri e parole).
«Quella era la Milano della mia infanzia, vicino a Lambrate. C’era un campo di grano, appunto, dove andavamo noi ragazzini. Da lontano si vedeva la nostra ferrovia. E c’era quell’amore profano che tutti, in un modo o nell’altro abbiamo provato. Ma io ho avuto una infanzia proletaria: papà era impiegato alla  «Con Il nastro rosa, Una donna per amico è una delle canzoni più vere che io abbia mai scritto. E per questo non ne parlo».
Ma erano tutte vere le sue canzoni: lei dice che scriveva parlando di sé.
«Scrissi Una donna per amico per Adriana. Era un’amica per davvero, una che al bar, ogni giorno, continuava a supplicarmi di scrivere una canzone per lei. Un giorno Ricordi. Io leggevo Salgari, Steinbeck e i poeti americani come Edgar Lee Masters. Tutto era severo, rigoroso. Però molto umano.»
È vero che all’inizio la musica di Lucio Battisti non le piaceva?
«Glielo dissi e lui mi spiazzò rispondendomi: sono d’accordo. Dopo poco tempo scrissi per lui 29 settembre. Gli ho voluto molto bene. Anche quando non ci siamo sentiti più. E lui mi diede la prova massima di fiducia: mi faceva cantare le canzoni prima di dare il via libera definitivo. Perché aveva capito che scrivevo parlando di me e solo se mi venivano bene anche in voce potevano funzionare. Per il resto era un uomo che parlava pochissimo di sé. Una cosa sola riuscii a estorcergli: a suonare la chitarra glielo aveva insegnato un uomo molto semplice.»
In fondo, Battisti è stato uno dei pochi inimitabili.
«Però molti si sono ispirati a lui. Vasco Rossi, per esempio, mio. E infatti è uno dei pochi che resiste. Sa perché? Perché è credibile. Non basta predicare il permissivismo e la libertà se poi non assomigli al tuo personaggio. La verità è tutto. La verità colpisce l’immaginario e rimane». Altri, come Fossati, hanno deciso di rinunciare.
«È che questo mondo ti stanca perché cambia velocemente. Oggi funziona così: si prende un ragazzo, si decide che quello è un artista senza che lo sia davvero, oppure prima che lo diventi. Lo si spreme e poi si passa a un altro. Spesso sono le radio stesse che producono dischi, dunque poi, ovviamente, faranno ascoltare solo quelli. Io ho centinaia di canzoni ma è difficile poi dare vita a un progetto vero. Ecco perché la mia creatività ha trovato altre strade».
Cioè?
«Vent’anni fa ebbi l’idea di creare delle Little Italy nel mondo, isole dove vendere i prodotti italiani, moda compresa. Farinetti è arrivato molto dopo e comunque la mia idea era più complessa. Oggi vorrei aiutare i migranti: con progetti di produzione nelle loro terre sotto la guida dell’Unione Europea, soprattutto coltivazioni biologiche. Ho idee e ai politici dico: sfruttatemi!»
Mogol, però non mi pare che lei si possa lamentare. Fa decine di cose!
«Certo, dalla nazionale cantanti che ho fondato fino al sostegno ai bambini autistici. Vorrei fare di più per chi soffre. Prego molto: ogni giorno almeno un quarto d’ora. Ma sto bene solo in mezzo a... Un’avventura. Così si chiama la mia barca con la quale mi sono lanciato con mare a forza otto. Ho sfidato il Meltemi e sono arrivato in Turchia. A cavallo ho attraversato l’Italia due volte, una con Lucio e una con Daniela. Non ho paura della morte. E non ho creato il Cet come monumento a me stesso: l’ho fatto per lasciare un’eredità». E con la sua scuola ha lanciato molti ar tisti, Arisa compresa.
«O l’autore Giuseppe Anastasi, bravissimo. Poi a volte ho aiutato gli amici. Lo stesso Gianni Morandi ammette oggi che, quando lasciò la canzone, io andai a trovarlo per convincerlo a tornare. Scrissi per lui Canzoni stonate. E tornò.»
Le manca Battisti?
«No, perché lui è con me. Quasi vent’anni fa una medium mi contattò dicendo che Battisti le aveva detto di scrivere una canzone dal titolo L’arcobaleno. Stessa cosa me la disse un giornalista, fervente cattolico. La scrissi, per Celentano, in un quarto d’ora. Per strada, in una giornata azzurra, mi imbattei in due arcobaleni. L’anno scorso, mio figlio decise di raccogliere per me in un cd tutte le canzoni che ho scritto per Mango. Ci mettemmo in auto, le ascoltammo e, arrivati, notammo un grandissimo, coloratissimo arcobaleno. Quella sera stessa mi giunse la notizia che Mango era morto.» Era... stato Lucio?
«Dico solo una cosa. Lucio aveva una straordinaria capacità tecnica, sapeva far funzionare tutto. Secondo me ha trovato il modo di fare anche questo».
Quel gran genio del mio amico che “con un cacciavite in strada fa miracoli” (Sì, viaggiare).