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 2017  agosto 23 Mercoledì calendario

La sfida al cuore del radicalismo. Scuole, carceri, famiglie viaggio nei luoghi dove si può costruire una società più sicura

La sfida al cuore del radicalismo
Scuole, carceri, famiglie viaggio nei luoghi dove si può costruire una società più sicura
Come arrestare la radicalizzazione jihadista? Che fare prima che dei giovani indossino una cintura esplosiva o si lancino con un veicolo sulla folla? Come agire in Italia? Iniziamo un viaggio alla ricerca di alcune risposte, partendo dal nostro paese.
IL CASO ITALIA
L’Italia è stata, sin qui, risparmiata dal terrorismo. Le ragioni sono molteplici. Tra esse, la presenza di apparati di sicurezza e di intelligence che esercitano un forte controllo sul fenomeno e, soltanto rispetto a qualche anno fa, sono oggi in grado di “leggerlo” con maggiore rigore analitico.
Un fattore demografico produce inoltre una sorta di nostro “ritardo”, rispetto alle dinamiche in corso in Paesi come Francia, Gran Bretagna e la stessa Spagna. Non abbiamo ancora, infatti, un numero elevato di appartenenti alle Seconde generazioni, quelle più problematiche sul versante della radicalizzazione, come ci ricorda anche il recentissimo caso spagnolo.
LE SECONDE GENERAZIONI
Sono proprio le Seconde generazioni, infatti, a essere più coinvolte dalla ricerca di un’identità forte, capace di colmare quella sensazione di “doppia assenza” che deriva dal non sentirsi né pienamente appartenenti alla società in cui si vive né a quella del Paese di provenienza dei genitori.
Così può capitare che per reazione si sviluppi un’identità antagonista, all’apparenza in grado di offrire granitiche certezze a chi, prima, fluttuava nel tempestoso mare di una modernità dominata dall’incertezza.È un’identità, quella radicale, spesso cercata nel tentativo di dotarsi di una bussola sicura: sono piuttosto comuni, per esempio, i casi di ragazzi che si radicalizzano dopo aver rinnegato per anni la cultura religiosa trasmessa dalle famiglie, un islam “moderato” e “popolare” che viene considerato inservibile per interpretare il mondo polarizzato di oggi.
Dopo aver afferrato gli stili di vita, le mode, i consumi, persino le trasgressioni o le subculture di stampo occidentale, questi stessi ragazzi si rivolgono alla versione più estrema della loro religione di origine.
LA PREVENZIONE CULTURALE
È su questo terreno che la “prevenzione culturale” può avere un ruolo. Certo, da sola non basta a debellare i processi di radicalizzazione: dietro a questi fenomeni infatti ci sono molteplici cause, così come molteplici sono i versanti su cui si giocano, sia dal punto di vista politico sia da quello religioso.
UNA DATA SIMBOLO
Il ciclo politico dell’islam radicale non è iniziato, come molti pensano, l’11 settembre 2001, bensì almeno vent’anni prima.
Se si volesse cercare una data simbolo, andrebbe trovata nel 6 ottobre 1981, quando un commando del gruppo di Al Jihad, lo stesso in cui militava un giovanissimo Ayman al Zawahiri, poi leader di Al Qaeda, uccise, in un drammatico passaggio dalla “teoria alla prassi” il presidente egiziano Anwar Sadat, simbolo del “governante em- pio” da abbattere in nome della dottrina che vede nella jihad un obbligo personale dell’”autentico credente”.
Ma, almeno, la prevenzione culturale potrebbe contenere quel processo, rendendolo sempre più circoscritto, sino all’esaurimento connesso a ogni fenomeno storico.
LA PROPOSTA
Su questo terreno l’Italia si sta misurando proprio in questi mesi, anche su impulso dell’Unione europea.
Sarà infatti presto in discussione al Senato, dopo la recente approvazione alla Camera dei deputati, la legge sul contrasto alla radicalizzazione jihadista, che prende il nome dai suoi primi firmatari, Stefano Dambruoso e Andrea Manciulli. Il testo è stato largamente influenzato dalla ricezione legislativa del lavoro svolto dalla Commissione sulla radicalizzazione jihadista istituita dal governo guidato da Metto Renzi, per volontà dall’attuale ministro dell’Interno, Marco Minniti, quando era titolare della delega ai Servizi di sicurezza.
La Commissione ha lavorato autonomamente, senza la presenza di esponenti dell’esecutivo, e, volutamente, non aveva al suo interno magistrati, appartenenti a forze di polizia oppure agenzie d’informazione.
Proprio perché il suo lavoro non doveva sovrapporsi a quello di polizia e intelligence, al suo interno hanno lavorato studiosi del terrorismo, sociologi, psicologi ed esperti di comunicazione.
Il rapporto di quella Commissione contiene linee guida per lo sviluppo di una strategia di prevenzione della radicalizzazione e di de-radicalizzazione in Italia. Tratto comune di queste indicazioni è l’idea di prevenire con strumenti diversi da quelli soltanto repressivi, di puntare più su forme di soft che di hard power.
La prevenzione di polizia e l’azione di intelligence hanno come oggetto i già radicalizzati, la prevenzione culturale riguarda, invece, segmenti di popolazione ritenuta potenzialmente a rischio. Come i giovani oppure i detenuti.
In questo ambito, la legge Dambruoso- Manciulli individua come terreni privilegiati di contrasto culturale alla radicalizzazione il mondo della scuola e quello delle carceri.
(1. continua)
 
Combattere la jihad a scuola
Si abbassa sempre di più l’età dei giovani radicalizzati


La Repubblica, giovedì 24 agosto

 
Ogni volta che c’è un attentato ritorna una domanda: com’è possibile? Com’è possibile che persone, spesso ragazzi, scelgano la via della radicalizzazione fino all’estremo del terrore, fino a togliere, spesso togliendosi, la vita? E che cosa si può fare?
Servono prevenzione, intelligence, controllo del territorio, forze dell’ordine e forse barriere nelle piazze.
Ma se il problema è la radicalizzazione bisogna andare alla radice. Formazione e integrazione sono parole chiave, ma sono parole: cerchiamo di trasformarle in racconti, in proposte. Come si può svuotare il mare in cui sguazzano i reclutatori del terrore? Questa inchiesta tenta di proporre alcune risposte concrete: ieri la prima puntata dedicata all’integrazione
INSIEME
Ragazze musulmane all’ingresso di una scuola di Roma. Qui sopra, una bacheca con i simboli delle diverse religioni
Prevenzione culturale: l’espressione chiave quando si parla di prevenzione della radicalizzazione jihadista è questa. Il senso della frase è chiaro: se si vuole impedire che il radicalismo faccia proseliti, occorre predisporre interventi di contrasto, laddove – scuole, nuovi media, carceri- quel rischio appare concreto. Ma come?
Tra qualche settimana anche l’Italia avrà una legge che risponde a questo interrogativo: saranno infatti varate misure di prevenzione della radicalizzazione jihadista non tanto sul terreno tipico delle forze di polizia e intelligence ma, ed è la prima volta nel nostro Paese, anche su un piano più vasto.
LA LEGGE
La legge che sarà approvata a breve ha un raggio di azione molto ampio. Prevede progetti che vanno dalla diffusione della conoscenza sulla realtà culturale e religiosa di una società plurale, alla valorizzazione di una contronarrazione che consenta ai giovani musulmani di percepire la natura e i caratteri della propaganda jihadista. Ma non solo: fra le novità previste, c’è quella dell’ingresso nelle carceri di figure che consentano di demistificare le distorsioni teologiche prodotte dal messaggio radicale e contribuiscano a de-radicalizzare quanti potrebbero aver già fatto il salto. Di fatto, si tratta della presa d’atto che il contrasto a un fenomeno come la radicalizzazione deve essere fatto soprattutto sul terreno della battaglia delle idee.
LA SCUOLA
La legge pone molta attenzione sulla scuola e sulle Seconde generazioni (i figli degli immigrati) che la frequentano: lo fa finanziando interventi e formazione nel campo della conoscenza e della didattica interculturale e sollecitando le reti scolastiche a servirsi di esperti forniti da università o altri enti. Qui il motore è l’Osservatorio nazionale per l’Integrazione degli alunni stranieri e per l’Intercultura, che definisce linee guida e modalità d’intervento in coerenza con gli obiettivi fissati dal Piano varato dal CRAD, il Centro nazionale per la radicalizzazione, che è il motore di tutto il piano.
Per progetti, attività di formazione e aggiornamento del personale sono previsti finanziamenti per 20 milioni di euro in due anni. In questa visione, dunque, la scuola viene concepita non solo come luogo della diffusione del sapere ma anche come produttrice di cittadinanza attiva.
Anche l’università è chiamata a svolgere un ruolo. Fornendo saperi frutto della sua attività di ricerca e, come vuole la legge, promuovendo la formazione accademica di figure professionali specializzate nel campo della radicalizzazione. Per queste funzioni sono previsti finanziamenti per 5 milioni di euro a partire dal 2017.
Basterà tutto questo? Ed è pensabile che la scuola italiana, con tutti i suoi problemi riesca a svolgere un simile compito? Per evitare che l’Italia colmi presto il prezioso ritardo nella comparsa di aspiranti jihadisti tra le Seconde generazioni, la strada sembra obbligata.
IL MECCANISMO
Il “cervello” di tutto il dispositivo è il CRAD. Una cabina di regia, collocata presso il dipartimento per le Libertà civili e l’Immigrazione del ministero dell’Interno, nella quale dovrebbero essere presenti rappresentanti dei diversi ministeri, esponenti di istituzioni, enti e associazioni, membri della Consulta per l’Islam italiano.
Esplicito segnale, quest’ultimo, della volontà di coinvolgere leadership musulmane ritenute affidabili in un percorso che non può prescindere dal loro contributo.
È il CRAD a varare il Piano strategico nazionale di prevenzione, approvato dal Consiglio dei ministri, su proposta del ministro dell’Interno, la cui attuazione è demandata a centri regionali (CCR), gemmati sul modello della struttura centrale nel territorio. Funzionerà? Molto dipenderà dalla volontà di chi si troverà a applicare la legge: un esecutivo formato da forze politiche convinte che sia preferibile insistere sul solo terreno del contrasto repressivo la svuoterebbe di fatto.
LA FORMAZIONE
Quello delle competenze è uno dei cardini della legge. È previsto che i ministeri istituiscano attività di formazione per il personale di polizia, delle forze armate, dell’amministrazione penitenziaria, dei corpi di polizia locale, di docenti e dirigenti delle scuole e delle università, di operatori dei servizi sociali e socio-sanitari.
L’obiettivo è la diffusione di conoscenze che consentano di valutare eventuali processi di radicalizzazione ma che permettano anche di non scambiare l’esercizio di diritti garantiti costituzionalmente, come la libertà di culto con manifestazioni di jihadismo.
Insomma, il terrorismo di matrice islamista impone di conoscere meglio cultura e religione di quanti vivono stabilmente nella società italiana, per evitare di produrre stigmatizzazioni collettive.
( 2. continua)
 
La battaglia delle carceri Le celle come luoghi chiave dove opporsi alla radicalizzazione


La Repubblica, venerdì 25 agosto


La prevenzione culturale si fa anche sul fronte del carcere. Sono circa undicimila i detenuti musulmani: non tutti professano, ma la domanda di Islam dietro alle sbarre è crescente. Per alcuni la riscoperta della fede risponde al bisogno di riscattare scelte di vita sfociate in uno scacco biografico e di superare il senso di fallimento amplificato dalla reclusione. Per altri l’Islam è, essenzialmente, una forma di identità collettiva, tanto più nel carcere divenuto multietnico e multireligioso, dove l’appartenenza a uno specifico gruppo comunitario può rivelarsi funzionale sotto molteplici aspetti. Un’ulteriore differenza è quella tra osservanti rigorosi, interessati al rispetto dei precetti, e quanti fanno del bricolage religioso, mescolando selettivamente aspetti della pratica religiosa e rispetto di questa o quella norma. Quanto ai già radicalizzati sono essenzialmente intenzionati, specie se devono scontare pene lunghe, a fare delle prigioni un luogo di proselitismo.
IL CASO
In ogni caso, l’Islam in carcere si dilata. Apparendo a molti la sola risorsa di senso capace di rispondere a condizioni di particolare difficoltà.
Per i detenuti musulmani, in larga parte de-islamizzati prima del loro ingresso nel circuito penitenziario, l’Islam consente di ristrutturare un’identità personale dentro a codici comunque rassicuranti, anche perché noti. Ma quest’identità ritrovata può prendere il volto del semplice ritorno alla fede, divenendo un fattore d’ordine interiore e nelle celle; o quello dell’adesione al messaggio radicale come forma di rivolta verso il Paese, o il mondo, che ha dato forma al sistema giuridico e carcerario che ha condannato o recluso il detenuto.
È quello che è accaduto a molti giovani nelle prigioni francesi, britanniche, belghe. Come anche all’attentatore di Berlino, Anis Amri, recluso per anni in Italia.
LA SFIDA
Il carcere si sta adeguando anche organizzativamente alla mutata composizione della sua popolazione. Ma la presenza dell’Islam negli istituti penitenziari si scontra con molte difficoltà: spazi, orari della preghiera, problematiche connesse al Ramadan e all’alimentazione lecita, cronica mancanza di imam che possano rispondere alle richieste di assistenza spirituale. Carenza, questa, che induce taluni gruppi di detenuti a affidare la funzione a uno di loro, talvolta non all’altezza del compito, oppure, sin troppo influente: problema serio, quando il suo orientamento politico e religioso è radicaleggiante. O a respingere imam provenienti dall’esterno, ritenuti troppo legati alle esigenze delle istituzioni carcerarie.
Nei nostri penitenziari il monitoraggio dei processi di radicalizzazione è continuo. I detenuti sotto osservazione sono oltre trecento.
Tra questi circa la metà, compresi gli accusati di reati di terrorismo sottoposti al regime di Alta Sicurezza, sono classificati a alto rischio. Ma i regimi di detenzione speciale non sono sufficienti a arginare il fenomeno.
IL RUOLO DELLA RELIGIONE
Per contenere la deriva ideologica nelle celle è necessario non consegnare la maggioranza dei detenuti al messaggio radicale, spesso veicolato come ideologia del riscatto nei confronti di una fetta di popolazione carceraria che si sente anche culturalmente straniera.
Per conseguire questo fine, il rispetto del diritto di culto diventa decisivo. Negarlo non fa che dilagare l’idea, cara ai radicali, dell’islam come “religione degli oppressi”. Ai correligionari quest’ultimi presentano le difficoltà nell’esercizio del culto nelle prigioni come prova deliberata dell’ostilità discriminatoria nei loro confronti.
La libertà di culto in carcere diventa, così, non solo l’esercizio di un diritto costituzionale ma un fattore essenziale per la sicurezza nazionale. Perché riduce il terreno nel quale prosperano quanti presentano l’islam radicale come il solo “autentico islam”.
Un rischio diffuso anche nei reparti che non sono nel circuito di Alta Sicurezza, nei quali i “radicali nascosti”, detenuti comuni che occultano le loro simpatie ideologiche per timore di essere trasferiti in alti reparti o istituti, possono influenzare personalità fragili o in giovane età. La formazione di personale penitenziario capace di distinguere i segnali della radicalizzazione dalle prescrizioni del culto ma anche di coglierne i processi di dissimulazione è essenziale per una strategia fondata sul duplice pilastro sicurezza-diritti. Ed è anche a quel personale che sono rivolti i percorsi di formazione previsti dalla legge Dambruoso-Manciulli. Anche se già da tempo il Dap, l’amministrazione penitenziaria, ha iniziato un suo autonomo percorso in materia.
3. ( fine)