La Stampa, 25 agosto 2017
Giacomo Bove e Salgari il gioco dei destini incrociati. Moriva suicida 130 anni fa il grande esploratore piemontese che trovò il Passaggio di Nord-Est e ispirò il romanziere
Con un colpo di pistola alla tempia, in un torrido giorno di agosto di 130 anni fa, finiva a Verona la vita ardimentosa di uno dei più celebri esploratori italiani. Che oggi, inspiegabilmente, è quasi del tutto dimenticata. A ricordo di Giacomo Bove è rimasto un difficile sentiero in quota a lui dedicato, la più antica alta via d’Italia, nel Parco Nazionale della Val Grande. E al suo paese natale, Maranzana nell’Alto Monferrato, si trova un piccolo museo e una lapide recentemente scoperta. Niente più è rimasto di Giacomo Bove. Eppure così lo ricordava l’amico Edmondo De Amicis sulle pagine della Gazzetta del Popolo: «Al suo passaggio, le stazioni delle ferrovie erano affollate di studenti che gridavano il suo nome, nei vasti teatri migliaia di uditori pendevano commossi dalle sue labbra, nei banchetti cento calici cercavano il suo».
Bove era nato da una famiglia di contadini nel 1852, e grazie a una serie di circostanze favorevoli era stato ammesso all’Accademia Navale di Genova, da dove sarebbe uscito a pieni voti. A quel punto un futuro da esploratore lo attendeva. Avrebbe trovato il Passaggio di Nord-Est dopo tre secoli di tentativi infruttuosi, resistendo per 35 settimane nella morsa dei ghiacci della notte artica: un’avventura ai limiti della sopravvivenza.
Anni dopo l’Artico, risalendo la corrente limacciosa del fiume Congo, Bove avrebbe contratto una malattia tropicale, all’epoca inguaribile. Mesi di tormento in Italia lo portarono a quell’ultimo gesto disperato: un’eutanasia autoprodotta, si direbbe oggi. Un suicidio. Gesto illegittimo nella bigotta Italia dell’epoca: la sua bara venne rifiutata al cimitero di Genova; e sulla tomba ad Acqui Terme il sindaco, tal avvocato Accusani del partito clericale, negò il permesso di apporre una lapide. La damnatio memoriae cadde inesorabile come una scure sul poveretto. Presto il grande pubblico si dimenticò di lui e del suo significativo passaggio tra i vivi.
Tra i primi ad accorrere sul corpo esanime alle porte di Verona fu Emilio Salgari, all’epoca giovane reporter dell’Arena. Davanti a sé, quella mattina, Salgari si ritrovò l’uomo che lui stesso avrebbe voluto essere e nel quale si sarebbe immedesimato per il resto della vita viaggiando con la fantasia nei luoghi più remoti del pianeta. Bove aveva navigato su tutti gli oceani, mentre Salgari – come ben noto – non si muoverà mai dalla sua fumosa stanzetta adibita a studio. Eppure Salgari, come Bove, si farà chiamare «Capitano» e «Lupo di mare». E dichiarerà in un’intervista rilasciata a un giornalista: «Ho viaggiato molto, arrivando fino allo Stretto di Bering», proprio lo stretto attraversato per la prima volta da Giacomo Bove.
E non è finita: Bove era stato uno dei primi italiani a conoscere e descrivere il lussureggiante incanto di Labuan e del Borneo? Salgari ambienterà proprio lì i suoi romanzi più fortunati. Bove era rimasto intrappolato nell’inverno artico? Salgari scriverà almeno sei romanzi sui ghiacci del Polo Nord. Bove aveva esplorato la Patagonia e si era spinto giù in Terra del Fuoco? Ed ecco uscire il romanzo La stella dell’Araucania ambientato esattamente in quegli stessi luoghi.
L’immagine di Bove inseguirà Salgari fino al suo stesso suicidio. Avvenuto, anch’esso, fuori da una grande città, Torino, sotto gli alberi di Villa Rey, tagliandosi il ventre con un rasoio.
Dopo fruttuose ricerche da parte dello studioso salgariano Cristiano Calcagno, sono emerse sorprendenti coincidenze tra il «vero» Capitano (Bove) e il «finto» Capitano (Salgari). Corrispondenze e analogie che abbondano in modo impressionante, come in un gioco di specchi contrapposti. Bove era nato in Piemonte ed era morto a Verona: Salgari era nato a Verona e morto in Piemonte. Salgari era nato ad agosto e morto a fine aprile: Bove era morto ad agosto ed era nato a fine aprile. L’uno l’opposto dell’altro. Entrambi finiti a vivere per un certo periodo nel quartiere di Sampierdarena a Genova, in case tra loro vicine. Ma il «vero» Capitano era alto, slanciato, di presenza imponente, un uomo charmant abituato a usare francesismi a tutto spiano, come la moda del tempo suggeriva. Il «finto» Capitano, al contrario, era piccolotto, quasi nano, tanto che ai tempi dell’Arena veniva chiamato Salgarello.
Nel terzo dei tre necrologi che Salgari scrisse in occasione del suicidio dell’esploratore vengono raccontati nel dettaglio l’arrivo della bara alla stazione di Verona e la partenza verso il Piemonte. Un quarto di secolo dopo, compiendo lo stesso identico percorso – ma in direzione opposta – anche la bara del suicida Salgari passerà dalla stessa stazione, diretta al cimitero di Verona.
Quel mattino di agosto di 130 anni fa, Salgari aveva preso il testimone da Bove. E la realtà dal primo stava per scivolare nel mondo di fantasia del secondo.