La Stampa, 25 agosto 2017
L’Amazzonia e l’abolizione della National Reserve of Copper ad Associates. Intervista a Carlo Petrini, fondatore di Slow Food: «Il danno è irreparabile vanno fermati adesso»
Carlo Petrini, come cambierà il mondo con questo decreto per lo sfruttamento minerario dell’Amazzonia?
«È un punto di non ritorno. Quando si creano ferite così profonde nel territorio, a livello dei suoli, le conseguenze diventano irreversibili. Dobbiamo fermarci finché siamo in tempo».
Il governo brasiliano sostiene che le foreste e le riserve delle popolazioni indigene saranno salvaguardate. Lei ci crede?
«No, sono le solite parole abusate, che hanno perso ogni significato. C’è questo termine: sostenibilità. Ritorna sempre. Quando lo senti in bocca a un governo o alle multinazionali bisogna fare molta attenzione. Sostenibilità viene dal sustain, il pedale del pianoforte che fa durare una nota più a lungo. È questo che chiediamo: di far durare il più a lungo possibile le riserve naturali. Non sono infinite. Dove c’è distruzione e deprivazione del territorio non c’è sostenibilità possibile».
Lei conosce quella regione. Da lì arrivano molti contadini di Terra Madre. Può raccontarla?
«Sono stato diverse volte in Amazzonia. È grande come metà dell’Europa. È il più immenso tesoro che l’umanità abbia a disposizione: un tesoro per la maggior parte ancora sconosciuto. Questa nuova industria estrattiva occuperà una zona vasta come la Danimarca. Ed ha un limite naturale: quando avrà finito, intorno resterà il deserto. Pezzo dopo pezzo, perderemo il tesoro».
Il senatore all’opposizione brasiliana Randolfe Rodrigues dice che si tratta del più grande attacco all’Amazzonia degli ultimi cinquant’anni. Esagera?
«Forse ha calcato un po’ la mano, ma sicuramente è un altro passo verso l’autodistruzione. Da un’attività estrattiva di quel genere consegue l’insediamento di villaggi minerari con popolazioni disperate. Tutto torna indietro, a quanto pare. Siamo di nuovo a Marcinelle. Il lavoro del minatore è il più faticoso ed umiliante in assoluto. A queste concentrazioni di poveri minatori dovranno portare l’acqua. Costruiranno case scadenti, creeranno delle vie. Taglieranno foreste».
È finita l’epoca di Chico Mendes, il sindacalista che lottò tutta la vita contro il disboscamento dell’Amazzonia. Lei cercherà di fare qualcosa di concreto?
«Certamente. Tutte le associazioni si stanno muovendo. Anche Slow Food Brasile e Terra Madre. Il movimento Sem Terra, il Wwf e Via Campensina, la più grande associazione contadina del mondo. Anche le organizzazione indigene sono sul piede di guerra, tutte. Partiamo da questo dato, che sembra quasi incredibile: in Brasile il 2,8% dei proprietari terrieri possiede il 56% dei terreni agricoli. E ancora: l’1% delle aziende agricole occupa il 45% della superficie totale. Siamo ai servi della gleba. Non si è ancora risolto il problema delle masse dei contadini poveri. Non solo non vogliono dividere la terra. Intendono andare a estrarre risorse, vogliono impoverirla. E la decisione arriva da un presidente completamente squalificato e plurinquisito come Temer».
Proprio lui sostiene che questa decisione, attraendo nuovi investimenti, porterà soldi e sviluppo.
«È una favola che va decodificata. Di quale sviluppo stiamo parlando? I depauperamenti dei territori, dell’agricoltura e della biodiversità sono sempre forme distruttive. Non di sviluppo. Lì sta il paradigma. Non ci sarà una distribuzione delle ricchezze. Non ci saranno bene comuni. Centinaia di migliaia di persone non avranno alcun ricavo. L’industria estrattiva distruggerà territori, creando nuovi schiavi. Come già succede in Africa per i minerali che servono ai nostri telefonini».
Perché quello che succede in Amazzonia è importante anche qui?
«Perché quell’immenso polmone verde mantiene l’equilibrio del pianeta. Pulisce l’aria del mondo. Ne usufruiamo anche noi. E forse, un giorno, sarà giusto pagare un dazio. Siamo in una situazione in cui il rispetto dell’ambiente è ormai una questione sovrannazionale. Riguarda tutti. L’Italia, la Cina, gli Stati Uniti. Non è possibile continuare a danneggiare l’ambiente, non è possibile non ragionare in termini globali».
Quale sarebbe, secondo lei, la priorità?
«Riuscire a capire una volta per tutte che sviluppo e ricchezza, specialmente nei Paesi poveri, devono sempre essere in accordo con la produzione alimentare, la produzione primaria di cui tutti abbiamo bisogno. L’estrazione dell’oro va nelle mani di pochi, questo dice la storia della umanità. L’agricoltura è un bene universale. Per questo va difesa la terra, la dignità dei contadini e il tesoro della foresta amazzonica, il grande polmone verde del pianeta».