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 2017  agosto 24 Giovedì calendario

Orlando privatizza la giustizia online

Nel 2016 il Pd ha cercato di disfarsi della seconda parte della Costituzione. Sconfitto il 4 dicembre, ci riprova ora con la prima parte, schierando le sue menti migliori in una raffinata manovra a tenaglia. L’attacco è stato sferrato sull’ala destra da Angelo Panebianco. Con la sistematicità dello studioso, il politologo ha aggredito l’articolo 1 della Carta: la Repubblica – ci ha detto sul Corriere della Sera del 21 luglio – non dovrebbe essere fondata sul lavoro, ma sulla libertà. Belle parole, ma a smontarle sarebbe bastato Lello, il fiumarolo comunista che conobbi vogando sul Tevere: “La vera libertà – tuonava Lello, quando si parlava di politica – è quella dal bisogno!”.
E per liberarsi dal bisogno le strade sono due: o si nasce ricchi, o ci si procura un lavoro (art. 1), possibilmente corredato di retribuzione che assicuri un’esistenza libera e dignitosa (art. 36). Difficile garantire l’effetto (la libertà) rimuovendo la causa (il lavoro). Oggi le retribuzioni sono quelle, bassissime, che ci chiede l’Europa. Lo ha detto l’economista Paul De Grauwe sul Sole 24 Ore del 9 maggio: in un’unione monetaria occorre un meccanismo di aggiustamento alternativo al cambio. Questo meccanismo è la svalutazione interna, definita apertamente come “politiche finalizzate a ridurre i salari”. Nel quarto Reich il lavoro non rende più liberi, perché non è pagato abbastanza.
Resta un problema: di lavoro vive (o meglio ci prova) la maggioranza degli elettori. Dato che i salari sono il reddito della maggioranza, un sistema che li riduca, se vuole perpetuarsi, deve inevitabilmente ridurre anche i diritti politici: primo fra tutti, quello di esprimere il proprio dissenso (art. 21).
E qui interviene il secondo attacco, sferrato sull’ala sinistra dal ministro della Giustizia Andrea Orlando. In un’intervista rilasciata al Corriere il 14 agosto, il ministro affronta il tema dei cosiddetti “odiatori”. Chi sono? Quelli che postano contenuti “sgraditi”. Confessio regina probationum: il problema quindi non sono tanto le ingiurie o le diffamazioni (già sanzionate dalla legge), quanto i contenuti “sgraditi”. A chi? La risposta è sorprendente: a chiunque, anche a soggetti estranei, non menzionati nei contenuti “sgradevoli”. Si dovrebbe procedere, insomma, anche senza querela di parte. E con quale sanzione, visto che la “sgradevolezza” ancora non è reato? Con la sospensione dell’utente, impedendogli cioè l’accesso ai suoi account Twitter o Facebook, i quali, nonostante si prestino ad abusi, che certo vanno combattuti nel rispetto della legalità, sono in moltissimi casi normali strumenti di lavoro, al pari di una linea telefonica.
E chi farebbe da pubblico ministero, chi deciderebbe quali utenti sospendere? Associazioni private dalle quali le istituzioni dovrebbero “restare fuori” (e perché?), supportate da Fondazioni bancarie (garanzia di trasparenza!) e dalle Ong che tutelano dall’odio “contro la razza, il sesso, la religione”.
Il ministro deve essersi accorto dell’inopportunità di questo suo inquietante elogio della delazione, di questo sorprendente avallo di una giustizia privatizzata, che ti può apporre il marchio di infamia di “odiatore”, ostracizzandoti dall’agorà telematica con conseguenze pratiche e di immagine potenzialmente devastanti, senza alcun contraddittorio, su semplice segnalazione di associazioni dalle quali le istituzioni devono star fuori (un ministro, uomo delle istituzioni, forse dovrebbe almeno far finta di dare a queste ultime un po’ di fiducia). Così, il 22 agosto è seguita una smentita sul blog Byoblu. “Male!” diranno i più scaltriti: “Una smentita è una notizia data due volte!”. Peggio, aggiungo io, visto che, con un autolesionismo comunicativo che lascia sbalorditi, la cosiddetta smentita conferma punto per punto i risvolti più preoccupanti di queste esternazioni, affermando che i gestori della rete “devono assumere il controllo dei contenuti”, in virtù di un codice di condotta “europeo” (in vigore da maggio, ma del quale i media, sempre pronti a strombazzare qualsiasi futilità giunga da Bruxelles, stranamente non ci avevano informato).
Scorrendolo si hanno interessanti sorprese. Ad esempio, fra le associazioni incaricate di controllarci, Martino Cervo di Libero ha trovato l’Unar (Ufficio Nazionale Anti Discriminazioni Razziali) il cui direttore, come ricorderete, si è dimesso a febbraio a seguito di un servizio delle Iene (sorvolo sui dettagli). Per carità: il plurale di aneddoto non è dati, siamo garantisti (noi), e non vogliamo trarre da questo episodio singolo considerazioni di carattere generale. Ci viene però da concludere, parafrasando uno che di giustizia umana se ne intendeva: chi è senza peccato, sospenda il primo account!