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 2017  agosto 24 Giovedì calendario

Cechov cronista dell’orrore

Come mai Anton Cechov decise nel 1890 di partire per l’isola di Sachalin, in Siberia, dove gli zar avevano istituito la mortale colonia penale, la Katorga ? Vi rimase nove mesi, dall’aprile al dicembre, vide tutto quanto poté vedere con una minuzia, spesso ossessiva, testimone di un altro mondo, il mondo colto e civile. Nato trent’anni prima, laureato in Medicina, fu forse spinto al viaggio dalla polemica sull’indifferenza degli intellettuali nei confronti dei problemi sociali che inquietavano la Russia. O il suo fu un tentativo di scrivere un saggio utile per tentar di entrare come docente nella facoltà di Medicina dell’università?
Era già noto come autore di raccontini umoristici che piacevano molto e di operine teatrali. La medicina, diceva, era la sua moglie legittima, la letteratura l’amante. Per fortuna ebbe partita vinta l’amante, i suoi racconti, le sue commedie sono classici i cui temi, la vita, la morte, la delusione, la malinconia, la speranza di un’età migliore, il dolore, la guerra, l’angoscia, il taedium vitae appartengono anche al nostro tempo.
Adelphi ha ripubblicato L’isola di Sachalin, a cura della slavista Valentina Parisi il cui scritto, prezioso e indispensabile, fa da guida al libro di contemporaneità dolorosa.
Cechov non urla moralisticamente il suo sdegno, vuol solo rendersi conto delle sopraffazioni e delle nequizie di una falsa giustizia, racconta e il suo giudizio nasce solo dai fatti. Stringono il cuore le sue pagine, anche le più fredde e controllate. Non trascura nulla, il libro è una mescolanza di generi – narrazione soprattutto, inchiesta, diario – nutrito di fonti inusuali, cronache giudiziarie, referti medici, statistiche, ordinanze governative, bollettini meteorologici.
È ben cosciente, Cechov, di quel che vede. In una lettera al suo editore Aleksej Suvorin, riportata da Valentina Parisi, scrive: «Sachalin è il luogo delle più intollerabili sofferenze che possa sopportare l’uomo, libero o prigioniero che sia (...). Abbiamo fatto marcire in prigione milioni di uomini, li abbiamo fatti marcire invano, senza criterio, barbaramente; abbiamo obbligato la gente a percorrere migliaia di verste al freddo, in catene, l’abbiamo corrotta, abbiamo moltiplicato i delinquenti».
(E pensare che il grande scrittore spesso non ebbe consapevolezza dell’essenza e dei significati delle sue opere. Quando – raccontò il suo regista, Konstantin Stanislavskij – alla fine della lettura delle Tre sorelle (1900) gli attori, turbati, inquieti, piansero commossi, Cechov si arrabbiò moltissimo: pensava di aver scritto un vaudeville e gli attori lo prendevano per un dramma).
Nei mesi prima della partenza per Sachalin studiò come un dannato non soltanto la questione carceraria e le pratiche dell’amministrazione, ma raccolse dati sulla geografia, le scienze naturali, il suolo, il mare, i venti, e sulle condizioni igienico-sanitarie in cui vivevano i deportati. Un’attrice dei teatri imperiali, Kleopatra Karatygina, che conosceva bene la Siberia dove si era a lungo esibita, gli diede molte informazioni sugli usi e costumi dell’isola e sui suoi non comuni abitanti, gli consigliò anche un itinerario. Lo scrittore ne scelse un altro: da Mosca a Nikolaevsk passando per Kazan, Ekaterinburg, Tomsk, Irkutsk e Chabarovsk, imbarcandosi al ritorno sul piroscafo «Bajkal» che da Vladivostok arriverà a Odessa. Non era gradito alle autorità, non gli furono concessi permessi scritti, i funzionari della Direzione penitenziaria avevano l’ordine di impedirgli ogni contatto con i prigionieri politici confinati sull’isola. Non si sa se sia accaduto. Ma i suoi occhi acuti e la sua intelligenza riuscirono a sopperire a intralci e divieti.
Le stazioni di posta, il paesaggio e la sua grandiosità, la foresta – la taiga —, i fiumi, gli animali, gli orsi, i lupi, gli zibellini, i cervi, le capre selvatiche popolano le pagine del viaggio che è anche un racconto, un romanzo d’avventura.
Gli uomini, poi. Cechov parla con tutti, i vetturini, i cosacchi, i servi della gleba, i coloni, i contadini, gli ex esiliati, i medici, i galeotti: «Sotto le finestre aperte affacciate sulla strada sfilavano a passo cadenzato e senza fretta i deportati con i ceppi ai piedi; nella caserma di fronte la banda militare provava e riprovava le sue marce in previsione della visita del governatore generale».
Gira di villaggio in villaggio, tra curiosità e dovere della ricerca, entra nelle izbe, rozzi parallelepipedi di legno col tetto di paglia: una stanza sola, una stufa alla russa, un tavolo, un letto o un semplice bivacco per terra. Manca ogni traccia del passato, manca l’angolo delle icone. I detenuti della prigione di Aleksandrovsk non sono incatenati ai ceppi, di giorno possono stare fuori dal carcere, vestono come vogliono. Ma poi c’è la «baracca degli incatenati», laceri, sporchi, con i ceppi ai piedi, le manette ai polsi. La terribile povertà è difficile da nascondere. La miseria fa fiorire ogni nefandezza, l’usura, il ricatto, la violenza, il gioco d’azzardo, la corruzione. Cechov consulta i registri locali e parrocchiali, fa indigestione di numeri, il suo libro è una summa di varia umanità: «Per la strada s’incontrano contadine che per ripararsi dalla pioggia si sono legate intorno al capo grosse foglie di bardana e sembrano scarabei verdi».
Qualche volta non si trattiene, si indigna, nella prigione di Voevodsk, per esempio, scandalosa, esterrefatto nel vedere i detenuti legati mani e piedi a carriole da catene che impediscono ogni movimento. Le frustate e la carriola salvano qualche volta i derelitti dalla pena di morte.
«Al colpevole si infliggono quasi sempre trenta o cento bastonate. Il numero non dipende dal reato, bensì da chi ha disposto la punizione, se il capo circondario o il direttore della prigione: il primo ha il potere di affibbiare cento colpi, il secondo può arrivare solo a trenta». La giustizia degli zar.
Gli ultimi capitoli del libro, vietati dalla censura dell’epoca, sono neri come la pece. Cechov descrive una fustigazione, tra le grida del compiaciuto direttore del carcere: «Quarantadue! Quarantatré! A novanta manca un bel po’ (...). La parte colpita dalle frustate è blu e scarlatta per le ecchimosi e sanguina».
Cechov racconta anche come avviene la cerimonia dell’impiccagione, il lenzuolo funebre fatto indossare al condannato, la preghiera dei moribondi. Qualcuno, teatralmente, viene graziato all’ultimo minuto lasciando scontento il boia.
Cechov non si risparmia nulla. E per contrasto, leggendo questo libro senza tempo, vengono in mente – la morte e la vita, la ferocia e la dolcezza – le Tre sorelle, con Olga che nell’ultima scena abbraccia Irina e Maša. «Oh, sorelle care, non è finita, la nostra vita! Vivremo! La banda suona allegra, festosa e sembra che da un momento all’altro sapremo perché viviamo, perché soffriamo... Poterlo sapere, poterlo sapere!».