Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  agosto 24 Giovedì calendario

Benedetto Croce, il filosofo figlio del terremoto

«Nel luglio 1883 mi trovavo da pochi giorni, con mio padre, mia madre e mia sorella Maria, a Casamicciola, in una pensione chiamata Villa Verde nell’alto della città, quando la sera del 29 accadde il terribile tremoto», scrive Benedetto Croce in Memorie della mia vita. Appunti che sono stati adoprati e sostituiti dal Contributo alla critica di me stesso. È uno dei testi autobiografici che ebbero organica sistemazione nel Contributo, pubblicato fuori commercio nel 1918 e per il pubblico nel 1926. Casamicciola gli sterminò la famiglia e cambiò la sua vita. Aveva 17 anni. Fu estratto dalle macerie dopo una lunga notte di attesa, in una situazione drammaticamente analoga a quella dei tre bambini salvati l’altro giorno.
«Sepolto fino al collo»
Su quell’antica tragedia molto si favoleggiò. Per esempio, si disse – e si scrisse – che il padre, mentre agonizzava anche lui sepolto, gridò al figlio: «Offri centomila lire a chi ti salva». Se ne è riparlato due anni fa in occasione della morte di Lidia Croce, quando Roberto Saviano sembrò dar credito a questa versione: ne seguì una dura polemica con Marta Herling, figlia della scomparsa, e col Corriere del Mezzogiorno, ma è molto dubbio che la frase sia mai stata pronunciata. Il filosofo è tornato più volte su questo episodio decisivo per la sua vita anche intellettuale, senza mai far menzione di quelle parole.
«Ricordo – leggiamo sempre negli Appunti, alla data del 10 aprile 1902 – che si era finito di pranzare, e stavamo raccolti tutti in una stanza che dava sulla terrazza: mio padre scriveva una lettera, io leggevo di fronte a lui, mia madre e mia sorella discorrevano in un angolo l’una accanto all’altra, quando un rombo si udì cupo e prolungato, e nell’attimo stesso l’edifizio si sgretolò su di noi. Vidi in un baleno mio padre levarsi in piedi e mia sorella gettarsi nelle braccia di mia madre; io istintivamente sbalzai sulla terrazza, che mi si aprì sotto i piedi, e perdetti ogni coscienza».
Si risvegliò «a notte alta», «sepolto fino al collo», e dopo l’iniziale stordimento prese a invocare soccorso «per me e per mio padre, di cui ascoltavo la voce poco lontano; malgrado ogni sforzo, non riuscii da me solo a districarmi. Verso la mattina, fui cavato fuori da due soldati e steso su una barella all’aperto». Per Pasquale Croce non ci fu nulla da fare, e così per la madre Luigia Sipari e per la sorella del filosofo, Maria. «Furono rinvenuti – prosegue – solo nei giorni seguenti, morti sotto le macerie: mia sorella e mia madre abbracciate. Io m’ero rotto il braccio destro nel gomito, e fratturato in più punti il femore destro; ma risentivo poca o nessuna sofferenza, anzi come una certa consolazione di avere, in quel disastro, anche io ricevuto qualche danno: provavo come un rimorso di essermi salvato solo tra i miei, e l’idea di restare storpio o altrimenti offeso mi riusciva indifferente».
«Pensieri di suicidio»
L’idea del rimorso sarà una costante, destinata a crescere e accompagnarlo per tutta la vita. Nel Contributo alla critica di me stesso, dove il racconto torna più o meno con le stesse parole, questa angoscia si proietta su tutto l’arco della giovinezza: «Quegli anni furono i miei più dolorosi e cupi: i soli nei quali assai volte la sera, posando la testa sul guanciale, abbia fortemente bramato di non svegliarmi al mattino, e mi siano sorti persino pensieri di suicidio».
Croce non tornò mai più a Ischia. Ma nella sua opera il tema del «terreno traballante» diventerà una metafora importante per capire il mondo e la società. E proprio la tragedia giovanile che gli cambiò la vita influenzò di conseguenza la cultura italiana: perché il ragazzo diciassettenne, fino ad allora cresciuto in un’agiata famiglia di proprietari terrieri poco interessata ai grandi temi della politica e della società, fu accolto a Roma (col fratello Alfonso) nella casa dello zio Silvio Spaventa, un grande crocevia intellettuale; qui nacquero gli stimoli che ne fecero il più influente filosofo del nostro Novecento.
Nel Contributo Benedetto Croce riconosce alla madre di averlo stimolato allo studio della letteratura e della storia, ma aggiunge che mancava nella sua famiglia «qualsiasi risonanza di vita pubblica e politica». La storia non si fa con i se, ma chissà che ne sarebbe stato di lui – e in fondo, di noi – senza la tragedia di Casamicciola.