Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  agosto 21 Lunedì calendario

Missione normalità

Normalizzare e sorvegliare. Cercando di assorbire gli scossoni prodotti dai populismi che avanzano sulle due sponde dell’Atlantico: da Brexit a un Trump ostile al free trade e tentato da una nuova, pericolosa, deregulation finanziaria. Soprattutto, avviare il rientro della politica monetaria nel suo vecchio alveo dopo quasi dieci anni di una gestione emergenziale decisa per contrastare le spinte recessive e deflazionistiche della Grande Crisi. Resistendo alle pressioni della politica e della finanza Usa per un allentamento dei controlli introdotti dopo il crac del 2008 che, partito da Wall Street, rischiò di travolgere tutta l’economia mondiale. 
A volte in questi anni Mario Draghi e Janet Yellen hanno seguito traiettorie diverse. Ma ora, giunti al crepuscolo dei loro mandati in un mondo finanziariamente più stabile ma scosso da insidiosi venti politici, i capi della Banca centrale europea e della Federal Reserve americana convergono su uno stesso copione: quello che reciteranno il 24 e 25 agosto sui monti del Wyoming, al seminario di Jackson Hole. 
Quasi coetanei (la prima donna arrivata alla guida della Fed ha 71 anni mentre il banchiere italiano ne compirà 70 tra due settimane), Janet Yellen e Mario Draghi hanno storie personali diverse: lei, economista e moglie del Nobel per l’Economia George Akerlof, per decenni si è divisa tra accademia e ruoli di consulenza per governi e banche centrali. Lui, invece, ha passato una vita nelle istituzioni finanziarie italiane e internazionali: da direttore esecutivo della Banca Mondiale a Governatore della Banca d’Italia passando per la direzione generale del Tesoro con Guido Carli e Carlo Azeglio Ciampi e una parentesi nel privato con Goldman Sachs. I due sono arrivati alla guida delle rispettive banche centrali in momenti e circostanze differenti. E hanno davanti a sé futuri piuttosto diversi. La presidente della Fed sta scrivendo l’ultima pagina della sua gestione: anche se Donald Trump non ne esclude più la riconferma, dopo averla attaccata furiosamente l’anno scorso, durante la campagna elettorale, con ogni probabilità punterà su un altro candidato alla scadenza del suo mandato, a fine gennaio. Anche Mario Draghi comincia a intravedere il traguardo, ma comunque resterà alla guida della Bce fino all’autunno del 2019. Ha ancora molto da fare nei due anni che gli rimangono prima di lasciare il suo ufficio di Francoforte, mentre per Janet è già tempo di bilanci.
È quindi comprensibile – nella generale eccitazione per l’esibizione congiunta, l’ultima, dei due più celebri «sacerdoti delle monete» del mondo – che i banchieri centrali in arrivo a Jackson Hole attendano con ansia soprattutto le parole di Draghi. 
Qui Francoforte 
Per lui il simbolismo di questo evento è molto forte. L’ultima volta che partecipò al summit sulle Montagne Rocciose, nell’estate del 2014, le sue secche parole su un’inflazione ormai sparita ovunque oltre l’orizzonte furono il segnale premonitore di un’azione della Bce che, infatti, iniziò dopo poco: un gigantesco quantitative easing da oltre duemila miliardi di euro. Ora che quell’intervento triennale di acquisto di titoli sembra volgere al termine, ci si aspetta che proprio a Jackson Hole Draghi dia il segnale di un cambio di rotta (progressiva riduzione degli acquisti, attualmente pari a 60 miliardi di euro al mese) che verrà tradotto in provvedimenti esecutivi dal Consiglio dell’istituto europeo nella riunione del 6 settembre o in quella di ottobre. 
Non sono decisioni facili né scontate: l’inflazione in Europa è ancora molto bassa, sotto gli obiettivi della Bce, e le economie restano fragili. Cosa che, secondo molti, dovrebbe spingere Draghi a continuare la politica espansiva coraggiosamente adottata tre anni fa sfidando l’ostilità del gigante tedesco. Una manovra che la magistratura di Berlino ora sta sfidando davanti alle corti europee.
Ma Draghi, fermo nell’ignorare i richiami della Bundesbank nei momenti più difficili, ora che la ripresa si sta consolidando sembra determinato ad avviare la normalizzazione. Non è facile: ai primi segnali del cambio di rotta, l’euro si è rafforzato sul dollaro. Pessimo per le esportazioni delle imprese dell’Unione.
Ma il banchiere italiano sembra deciso, pur con tutte le prudenze del caso, ad andare per la sua strada: non vuole rischiare di «drogare» troppo le economie e cerca di non rendere troppo pesante il carico di titoli messi sulle spalle della Banca di Francoforte il cui bilancio si è già dilatato fino a superare i 4 mila miliardi di euro. Una cifra pari al 35 per cento del Pil europeo e ormai comparabile con quella di un altro bilancio che negli anni scorsi si è gonfiato a dismisura: quello della Fed che attualmente veleggia attorno ai 4.500 miliardi di dollari. Tra l’altro, visti gli attuali livelli d’acquisto, ben presto la Bce raggiungerà, in alcuni casi, i limiti dei parametri del quantitive easing in base ai quali l’Istituto di emissione non può acquistare più del 33 per cento del debito pubblico di un Paese dell’eurozona. Per Draghi, ancora non in grado di agire sui tassi, ancora in area negativa, avviare a conclusione la fase dell’acquisto di titoli costituisce un passaggio necessario verso la ricostituzione dei margini per interventi futuri della Banca, al momento di nuove crisi. 
Qui Washington 
La Yellen agisce con più vigore ( può farlo perché la Fed aveva adottato interventi d’emergenza assai prima della Bce e perché l’economia Usa è più solida di quelle europee) avendo in mente la stessa preoccupazione: stando alla sua biografia di economista liberal, Janet avrebbe dovuto guidare la Riserva federale col piglio della supercolomba. Ma il suo predecessore, il repubblicano Ben Bernanke, le aveva rubato la parte allargando enormemente i cordoni dei finanziamenti alle banche e all’economia per evitare una depressione economica come quella degli anni Trenta del secolo scorso. Janet è stata, così, costretta a recitare la parte del falchetto. 
Ha preso i tassi a zero e ha cominciato a rialzarli ma in modo molto graduale e con lunghi intervalli: una manovra digerita senza grandi difficoltà dai mercati. Poi ha posto termine all’era del quantitative easing e a Jackson Hole probabilmente annuncerà l’ultimo tassello della sua politica che dovrebbe essere formalizzato dal vertice della Fed a settembre: la graduale reimmissione sul mercato dei titoli – Buoni del Tesoro e obbligazioni garantite da mutui – acquistati dall’Istituto negli anni scorsi. 
Anche qui un intervento molto graduale: all’inizio verranno venduti solo 10 miliardi di dollari di titoli ogni mese, con l’obiettivo di aumentare la cadenza fino a 50, se il mercato reagirà bene. Comunque un dimagrimento, quello del bilancio della Fed, che richiederà tempi lunghissimi. La Yellen lascerà al suo successore un piano di rientro almeno decennale. 
Anche se Trump, come probabile, la metterà alla porta, Janet se ne andrà con tutti gli onori. «Se si guardano i dati dell’inflazione, perfino troppo bassa, e quelli di una disoccupazione ridotta appena al 4,3 per cento – ha detto Peter Conti-Brown, storico della Fed – si deve concludere che quella della Yellen è stata la presidenza di maggior successo nella storia della Banca centrale americana».
Certo, a differenza dei suoi predecessori, Janet non ha dovuto fronteggiare emergenze, crolli improvvisi, recessioni. Ma la stabilità dei mercati è stata anche frutto della saggezza con la quale si è mossa, della sua prudenza e della sua capacità di comunicare. Trump potrebbe anche confermarla, visto, oltretutto, che in questi mesi il dollaro si è indebolito. Cosa che non dispiace al presidente: aiuta l’export e il Pil americano. Ma l’ha insultata troppo in passato e probabilmente ha già promesso la Fed a Gary Cohn che ha lasciato la posizione di numero due a Goldman Sachs per entrare nel caotico mondo della Casa Bianca trumpiana come consigliere economico. 
E comunque il contrasto vero tra Yellen e Trump è sulle regole: lei si batte per tenere in piedi la riforma Dodd-Frank che Trump vuole, invece, smantellare. Aiutata in questo proprio da Draghi, anche lui convinto che la maggior stabilità finanziaria degli ultimi anni sia frutto non del caso, ma delle regole introdotte in America e a livello internazionale (anche grazie al lavoro del Financial Stability Forum da lui diretto). Se oggi Trump punta su una nuova deregulation, meglio affidarsi a Gary Cohn. Anche se il personaggio ha aspetti problematici. Intanto non è un economista: Gary nasce come trader in Borsa. Poi è cresciuto nella gerarchia Goldman soprattutto grazie alla sua irruenza. Non sarà facile, per lui, adattarsi a un mestiere che consiste soprattutto nell’esaminare le complesse analisi degli economisti e nel prendere decisioni collegiali, visto che nel Fomc, il board della Fed, il suo voto vale quanto quello degli altri governatori. Cohn potrebbe avere qualche problema anche al momento della ratifica della sua nomina da parte del Senato. Nessuno ha dimenticato le operazioni speculative border line condotte da Goldman alla vigilia del crollo del 2008 e nelle quali lui ebbe un ruolo operativo.
Per questo c’è chi, oltre a non dare per spacciata la Yellen, ritiene che Trump stia valutando anche altri candidati. In ogni caso succederle non sarà facile. Larry Summers, in un’elogio della Yellen dalla coda velenosa annuncia guai seri per il successore. Perché «lei ha fatto bene, ma io avrei osato di più a sostegno dell’economia e comunque, dopo una ripresa lunghissima (98 mesi senza interruzioni, la seconda crescita più lunga della storia americana, ndr) il suo successore dovrà probabilmente gestire una recessione».
Se ha ragione, per il successore saranno guai: dovrà vedersela con un Trump furioso che ha promesso agli americani una crescita fantastica, il 4 per cento l’anno, e affronterà l’arretramento dell’economia quasi disarmato: la ricostituzione della riserva di munizioni messa in cantiere da Janet Yellen richiede anni per andare a regime.