La Lettura, 20 agosto 2017
Le mani
Chissà che mani aveva Ginevra de’ Benci, ritratta da Leonardo nel 1474 in una tavola che poi venne tagliata nella parte inferiore. Quest’amputazione delle braccia ha aumentato le dimensioni del volto, riducendo l’espressione di malinconica lontananza che la nobildonna vestiva come una forma di bellezza. Allo stesso modo, quanta forza perderebbe la Madonna dell’Annunciazione di Recanati di Lorenzo Lotto (1527) se le togliessero le mani alzate? E perché il pittore veneziano ha voluto raffigurarla così, rivolta verso lo spettatore in un gesto di resa? O era di paura?
Sì, nell’arte le mani parlano. A volte in senso letterale: i ritratti dell’iraniana Shirin Neshat mostrano persone ricoperte di scritte in calligrafia persiana. Ma il suo ultimo lavoro, The Home of My Eyes, fino al 24 novembre al Museo Correr di Venezia, sperimenta un nuovo linguaggio delle mani: giunte, incrociate, appoggiate sul grembo di donne e uomini, sembrano un contenimento naturale della sofferenza, una diga. Come il dolore trattenuto di san Giovanni nel Compianto sul Cristo morto di Niccolò dell’Arca, oggi nella chiesa di Santa Maria della Vita a Bologna. Mani che contengono qualcosa che non si vede.
Al pari delle decine di studi su carta preparata in tinta rosa eseguiti da Leonardo nell’ossessiva ricerca del segreto della mano. Il suo essere mancino gli suggeriva che tra le dita e il palmo si consumasse un potere negromantico – e in fondo chi vuole conoscere il proprio destino si affida alla lettura di quelle linee scomposte, via via più profonde e ineluttabili. Ma nelle intuizioni leonardesche c’era qualcosa di più. Una verità che solo la ricerca scientifica più recente ha assodato: la mano è uno degli elementi più complessi del corpo umano, quasi un miracolo anatomico di parti molli e ossa grandi e piccole. Ogni movimento del singolo muscolo può essere indipendente dagli altri e forse è stato questo carattere «anarchico» rispetto al resto del corpo che nei secoli ha sedotto innumerevoli artisti.
Come lo scultore Lorenzo Quinn, classe 1966: sul Canal Grande, nell’area di Rialto, ha fatto spuntare due manone che sorreggono l’hotel Ca’ Sagredo. Certo, il messaggio è chiaro (lo ha precisato lo stesso artista): Venezia è fragile e la sua salvezza è nelle nostre... mani. Ma come non pensare alle mani gigantesche del padre di Lorenzo, Anthony, che ne La strada di Fellini, vestendo i panni di un rozzo saltimbanco, imbambolava folle di contadini poveri nell’Italia anni Cinquanta con prove di forza «maschia»? Più tardi i figli dell’Italia ubriaca di benessere adoreranno le mani dei maghi pop come Silvan e oggi generazioni di quarantenni si lasciano ipnotizzare dalle mani dei cuochi televisivi.
«Il potere della mano nell’arte è molto occidentale, anzi, molto italiano – dice la storica dell’arte Marina Pugliese, docente al California College of the Arts e co-curatrice della mostra Ambienti/Environments dal 20 settembre al
l’HangarBicocca di Milano —: basti pensare alla Creazione di Adamo di Michelangelo. Ma l’arte è una delle poche discipline che oggi cresce e opera in termini globali e dunque parlare di opere italiane o, poniamo, canadesi non ha senso. Si ricercano segni comuni. Forse la mano, come simbolo, è diventata una koiné semantica che unisce le varie latitudini».
Un «esperanto figurativo» nel quale si incontrano la tensione umana di Marc Quinn (che al Sir John Soane’s Museum di Londra fino al 23 settembre espone Drawn from life, sculture dove le mani sono il collante tra due persone) e l’ossessione per la cura artigianale di Andrew Tirado (nella mostra Open Hand al Colorado Springs Fine Arts Center propone palmi giganteschi di legno). Un linguaggio comune che unisce le nocche delle dita dei contadini fotografati da Tina Modotti in mostra a Casacalenda, in Molise, alle famose «estensioni» corporali di Rebecca Horn, dove mani quasi aracnidi prolungano il corpo femminile. Un’artista imprevedibile come Sarah Lucas, alla Legion of Honor di San Francisco rende omaggio al più grande scultore di mani del secolo scorso, Rodin, ingigantendo questi arti nelle sue installazioni, mentre, sempre a Venezia, le mani si ritrovano nelle opere del maestro italo bosniaco Safet Zec (nella Chiesa della Pietà), della giovane Adelita Husni-Bey, tra i protagonisti del Padiglione Italia della 57a Biennale, e anche nell’installazione di Pauline Curnier Jardin, Grotta Profunda, Approfondita.
«L’arte contemporanea – riflette il semiologo Paolo Fabbri – sta declinando a modo suo uno dei simboli più ricorrenti dell’arte antica, la mano, appunto. Penso a Bruce Nauman, nelle cui opere troviamo spesso mani intrecciate accanto alle scritte a led. Perché la mano è un segno che dice tante cose. Adatto a un’epoca di comunicazione non verbale». L’epoca degli emoji, delle faccine, dei pollici alzati per esprimere assenso o congiunti con l’indice per formare un cerchio che vuol dire ok. Non siamo in fondo lontani dai segni che costellavano l’iconografia religiosa bizantina, quando le dita del Cristo erano disposte in posizioni differenti, ciascuna con un significato preciso. Per esempio, il Cristo Pantocratore della cattedrale di Cefalù indica con le tre dita congiunte, l’unità e la Trinità di Dio.
E poi c’è la grandezza di L.O.V.E., la scultura di Maurizio Cattelan nella piazza degli Affari di Milano. Da una parte richiama la mano della Statua colossale di Costantino I, oggi ai Musei capitolini, dall’altra dà vita a un cortocircuito più sottile: il dito medio alzato ha una lunga e colta storia, che parte dall’antica Grecia, dove il digitus impudicus (come lo chiameranno i Romani) era una sorta di gesto dell’ombrello di oggi. L’arte che ci manda a quel paese è (a suo modo) irresistibile.