La Lettura, 20 agosto 2017
Perfino i vegetali sono pazzi per il sesso
Partiamo dai semi. Hanno trovato qualsiasi espediente pur di farsi trasportare. Utilizzano ali, vele, eliche, paracadute, uncini per attaccarsi al pelo degli animali, corazze per farsi ingoiare dagli uccelli (e un tempo dai dinosauri) senza essere digeriti, veleni come cianuro e ricina per non esser mangiati insieme al frutto, spine difensive, barbe e spighe per ancorarsi e infilarsi nel terreno. Le loro capacità aerodinamiche ispirarono i primi aviatori. Quelli delle felci sono microscopici come particelle di pulviscolo, quelli delle palme grandi come palloni da basket. Galleggiando sul mare o nel vento possono percorrere migliaia di chilometri. I semi sono i maestri naturali della dispersione, tanto da essere spesso parassitati da funghi e altri approfittatori che li usano per diffondersi.
Filosoficamente parlando, il seme è l’emblema della potenzialità: una promessa ancora inespressa, silenziosa e invisibile, ma possente. Suo padre è il polline, il letto nuziale il fiore. Può viaggiare anche nel tempo, entrando in stato di quiescenza per anni, decenni, a volte secoli. George Bernard Shaw scrisse della «terribile energia concentrata in una ghianda». Un mucchio di semi che germinano anzitempo può sfasciare una nave o sfondare un silos.
Da un minuscolo seme, grazie ai geni dello sviluppo che fanno da direttori d’orchestra, scaturiscono esseri viventi stupefacenti. L’organismo più voluminoso attualmente vivente sul pianeta Terra è una sequoia gigante californiana della specie Sequoiadendron giganteum, battezzata «generale Sherman» nel 1879 in onore del generale unionista della guerra di Secessione americana William Tecumseh Sherman. Pesa come sei Boeing 747-400 ed è alta 84 metri. Si calcola che sia nata tra l’VIII e il IV secolo a.C. da un singolo seme: di sei milligrammi.
Quel seme è sopravvissuto a molti pericoli prima di diventare un gigante di 2500 anni. Qualcuno per esempio avrebbe potuto mangiarselo. Del contenuto di ghiande, chicchi, noci, frutti e bacche si saziano da sempre gli animali. Cibandosi della confezione colorata e polposa che circonda i semi, insetti, uccelli e mammiferi frugivori (lo erano anche i nostri antenati ominidi) inconsapevolmente stanno trasferendo il prezioso contenuto che interessa alla pianta. Lo scambio è quasi sempre equo. Come spiega brillantemente il biologo dell’Università di Edimburgo Jonathan Silvertown nel libro La vita segreta dei semi (Bollati Boringhieri), questi concentrati di energia sotto forma di amido e grassi ci nutrono, ci regalano burro di cacao, grassi e oli vegetali per ogni uso, birra e caffè, farine e popcorn. Tutto dai semi. Insaporiscono i nostri piatti, idratano e proteggono la nostra pelle, ma soprattutto – se le cose vanno per il verso giusto dal loro punto di vista – germinano e si trasformano in piante che permettono la nostra esistenza dandoci cibo, farmaci, veleni, profumi, droghe, fibre e materiali che impregnano ogni aspetto della nostra vita quotidiana.
Ma perché in piante come la sequoia si sono evoluti i semi? Domanda difficile, che si lega a un’altra, più generale e altrettanto difficile: perché esiste il sesso? Nelle piante di norma il polline maschile feconda ovuli femminili, dando origine all’embrione vegetale protetto dal seme. Ma il sesso è pericoloso, perché qualcosa può sempre andare storto, e costoso, visto che ogni genitore rinuncia a trasmettere metà dei suoi geni. Eppure, dà un vantaggio impagabile: permette lo scambio di geni, di modo che la prole sia costituita da individui tutti diversi tra di loro e in parte diversi anche da padre e madre. Questa costante produzione di diversità genetica è un eccellente antidoto contro le malattie, poiché in una schiera di figli tutti differenti è più probabile che almeno qualcuno sia resistente a un agente patogeno. In una popolazione composta soltanto da cloni, al contrario, un parassita che dovesse colpirne uno finirebbe per far ammalare tutti. In pratica, il sesso è un generatore di diversità e la diversità è un’assicurazione sul futuro, il combustibile dell’evoluzione.
Grazie al sesso, quindi, ogni seme di sequoia è geneticamente diverso da ogni altro. Ecco perché tutto sommato vale la pena di affrontare le scomodità di avere due sessi. Questo processo è particolarmente evidente proprio nelle piante, poiché a differenza degli animali quasi tutte possiedono entrambi i mezzi riproduttivi, quelli sessuati e quelli asessuati (tramite polloni, talee o altri mezzi vegetativi). Eppure il sesso (e quindi semi e frutti) persiste nelle piante e non viene soppiantato dai più economici mezzi asessuati. Così grazie alle piante abbiamo forse capito come si è evoluto il sesso. Il ragionamento è presto detto: non sempre i sessi delle piante interagiscono, con mescolamento dei geni; esistono infatti semi non fecondati. La maggior parte delle piante poi sono ermafrodite (hanno nello stesso individuo gli organi maschili e femminili) e alcune possono auto-impollinarsi, anche se l’autofecondazione, come Darwin aveva intuito nei suoi esperimenti in serra, tende a produrre una progenie più debole. Insomma, le piante non si precludono alcuna possibilità riproduttiva.
Eppure, in un caso soltanto, il rarissimo cipresso del Sahara algerino, il seme porta il corredo genetico del solo maschio. In altri casi il seme possiede soltanto il corredo genetico femminile, essendo prodotto per via asessuata. Ed ecco l’indizio rivelatore: queste soluzioni svelte a sesso unico, in cui i figli sono cloni geneticamente identici a uno dei genitori, sono instabili e adottate dalle piante in condizioni ambientali sfavorevoli. Se non c’è un’emergenza di sopravvivenza immediata, lo scambio sessuale in un modo o nell’altro rispunta sempre nel mondo vegetale, a dimostrazione della sua ineliminabile, ancorché faticosa, funzione come generatore di diversità genetica. Ne discende l’onnipresenza dei semi fecondati, che le piante spargono profusamente su tutta la superficie terrestre. Se in mezzo all’oceano spunta un’isola vulcanica, terra vergine a centinaia di chilometri dalla costa più vicina, prima o poi vedrete spuntare non proprio una sequoia, ma sicuramente un’erbetta, portata da un seme che vola nel vento. Oggi il meccanismo è ben oliato, ma dobbiamo capire come abbiano potuto evolversi inizialmente macchine così efficienti per la dispersione.
Per le piante acquatiche è tutto più semplice, perché possono diffondere i loro semi, o direttamente parti vegetative di loro stesse, nelle correnti. E infatti anche l’evoluzione delle piante cominciò in acqua. Poi però, intorno a 470 milioni di anni fa, un’alga verde fu in grado di colonizzare la terraferma. Accadde una volta sola e tutte le piante terrestri odierne – dalle gimnosperme come le conifere e i ginkgo, alle angiosperme o piante da fiore – discendono da quell’unico progenitore comune, simile a un muschio, che fu capace di uscire dagli oceani, dopo chissà quanti tentativi ed errori. Come fare però a riprodursi sulla terraferma se ti sei sempre evoluto in mare e, in quanto pianta, non ti sposti da dove hai messo radici? Fu così che, come tocco finale dei suoi adattamenti terrestri, uno di questi pionieri vegetali (una felce) inventò i semi, nel Devoniano, intorno a 360 milioni di anni fa, all’incirca quando cominciavano a circolare anche i primi vertebrati terrestri, nostri antenati a quattro zampe, i tetrapodi che poi evolveranno in anfibi e rettili. L’evoluzione è fatta da biforcazioni come questa, cioè da un problema di sopravvivenza (vivere fuori dall’acqua) e da soluzioni alternative egualmente percorribili.
Le piante sono state inoltre in grado di cambiare le regole stesse del gioco evolutivo. Radici come quelle della sequoia hanno stabilizzato il suolo e modellato il paesaggio. Studi degli ultimi anni confermano che quando le piante colonizzarono la terraferma, sottraendo anidride carbonica all’atmosfera, indebolirono l’effetto serra e produssero un raffreddamento globale del clima, innescando un’estinzione di massa negli oceani. Oggi abbiamo più che mai bisogno del loro effetto refrigerante, ma tutte le piante del mondo impiegherebbero comunque alcuni milioni di anni per abbattere l’anidride carbonica immessa dalle attività umane in atmosfera. Di seme in seme, potremo comunque mitigare gli effetti del riscaldamento globale.
La ricetta dei semi è davvero ingegnosa e noi animali dovremmo invidiarla: a fecondazione avvenuta, prendete l’embrione, circondatelo con un involucro protettivo che impedisca l’essicazione (dall’acqua tutti proveniamo e dipendiamo), aggiungeteci una riserva di cibo altamente energetica e disperdetelo nell’ambiente, massimizzando così le possibilità di riprodurvi a distanza di sicurezza da una madre che potrebbe farvi ombra, soprattutto se ingombrante come una sequoia.
Nelle piante da fiore l’involucro è un ovario che matura in appetitoso frutto, circondando il seme e nutrendolo con l’endosperma, una sostanza che contiene una dose doppia di geni materni e che potrebbe essersi evoluta sotto forma di un embrione gemello abortito e riutilizzato come riserva di cibo per l’embrione fratello che si svilupperà dentro il seme. A riprova del fatto che l’opportunistico riutilizzo di strutture già esistenti per nuove funzioni, in altri termini far di necessità virtù, è un trucco onnipresente nella storia naturale. Alcune piante da fiore si sono poi vendicate dei loro predatori, diventando carnivore attraverso un’evoluzione genetica che è stata di recente ricostruita sulla rivista «Pnas». L’evoluzione delle angiosperme in generale resta invece un giallo. L’antenato comune separatosi all’inizio del Cretaceo, circa 130 milioni di anni fa, non è stato ancora trovato e non ci si spiega la loro formidabile diversificazione successiva (che già Darwin, in un momento di sconforto senile, considerava un «abominevole mistero» per la sua teoria).
A ogni buon conto, i piccolissimi semi di sequoia gigante si trovano in vendita su internet a pochi dollari. Bisogna solo stare attenti a non piantarli troppo vicino a casa.