il Fatto Quotidiano, 22 agosto 2017
La mia ultima notte con Dean. Il racconto di Jerry Lewis
Il sodalizio tra Jerry Lewis e Dean Martin durò 10 anni. È stato lo stesso Lewis a raccontare i motivi della loro separazione in “Dean & Me”. Pubblichiamo uno stralcio del prologo, il racconto dei loro ultimi spettacoli insieme.
La gran parte del mondo là fuori non aveva alcuna idea della voragine che si era creata tra di noi, e noi continuavamo a fare soldi come la Zecca di Stato. Ma era inevitabile: il tempo aveva fatto il suo corso. Nel più tranquillo e pratico dei modi, Dean e io decidemmo di uscire allo scoperto. La notte di martedì 24 luglio del 1956 – a dieci anni dalla nostra prima apparizione insieme al 500 Club di Skinny D’Amato ad Atlantic City – ci esibimmo nei nostri ultimi tre spettacoli, al Copacabana, sulla Sessantesima Est a Manhattan. La serata acquisì in fretta l’imponenza di un grande evento. Del resto, in quell’ultimo decennio, Martin e Lewis avevano incantato l’America e il mondo. Eravamo stati amati, idolatrati, contesi. E adesso stavamo rompendo l’idillio. La lista delle celebrità invitate a questa serata delle serate non faceva che crescere. A circa mezz’ora dall’inizio dello show Dean e io non avevamo molto da dirci. Sarebbe stata una nottataccia, ma sapevamo entrambi che non potevamo permetterci di essere sciatti o poco professionali. Per cui avevamo in mente di divertirci, se possibile, e di fare il miglior spettacolo che ci riuscisse.
Verso le 19.35 attraversai il corridoio diretto alla suite del mio partner solo per dirgli che mi serviva del ghiaccio. Dean aveva sempre del ghiaccio. Andai verso il bar e me ne versai un po’ nel bicchiere. Lui mi guardò consapevole: provava quello che provavo io e non c’era granché da spiegare. Arrivai fino alla porta e quindi gracchiai: “Buono spettacolo, Paul” (Paul era il suo secondo nome, e io lo chiamavo sempre così). E lui: “Anche a te, ragazzo”. Uscii in corridoio e pensai che mi si sarebbe spezzato il cuore. Stavo perdendo il mio migliore amico e non sapevo perché. E anche se lo avessi saputo, che differenza avrebbe fatto? Col senno di poi penso che visto che doveva accadere, quantomeno accadde in fretta. Mariti e mogli ci mettono anni a separarsi, o rimangono insieme per le ragioni sbagliate. Dean e io sapevamo che dovevamo riappropriarci delle nostre vite, e che lavorare insieme non funzionava più. Per quanto suoni sentimentale, avevamo goduto entrambi della benedizione di Dio ma alla fine anche Lui aveva detto: “Basta!”. (…)
Beh, comunque ci sentissimo, il mio socio e io avevamo ancora i nostri ultimi tre show da fare al Copa, ed era arrivato il momento di affrontarli. Io entravo in scena sempre prima di Dean, facevo il mio numero e lo presentavo. Lui nel frattempo se ne stava al piano di sopra del Copa ad accogliere la gente e a fare il simpatico mentre io ero sul palco a preparare il pubblico al suo ingresso. Ma quella notte, quando arrivò per me il momento di dire: ed ecco il mio socio, Dean Martin, le parole mi si bloccarono in gola. L’aria era satura dell’intensità del momento: il pubblico, costellato di celebrità, sapeva che quella sarebbe stata l’ultima notte in cui avrei pronunciato quelle parole e probabilmente sperava che all’ultimo minuto ci ripensassimo. C’era un’atmosfera di inquietudine e incertezza. (…)
E così Dean venne fuori, come faceva sempre: apparentemente tranquillo, con l’aria rilassata. Ma io conoscevo il mio socio. I suoi occhi mi dicevano che provava lo stesso dolore e la stessa perplessità che provavo io. Ci stringemmo la mano come facevamo sempre, anche se questa volta si sentì un mormorio attraversare la sala. “Forse c’è una possibilità?”. Il mormorio vibrò nell’intero edificio. Dean fece le sue tre canzoni senza grandi colpi di scena, più o meno come le faceva sempre, e dopo io iniziai con la solita routine. “È bello che tu abbia ridotto a undici le tue canzoni. Stavo per andare a rifarmi la doccia! Fuori non c’è scritto Dean Martin, punto, c’è scritto Dean Martin e Jerry Lewis! Te lo sei scordato, o hai paura di restare disoccupato?”. (…)
Finimmo il secondo spettacolo, e il terzo cominciava alle due e trenta in punto. Dean e io lo sapevamo: Ci siamo! L’ultima volta, mai più, è finita. Era come sentirsi strozzare senza che nessuno ti stringa la gola. Ma eccoci. Sono le due e venticinque e Dean è in piedi al suo posto in fondo alle scale, a destra del palcoscenico. Anche io sono in piedi in fondo alle scale, a sinistra del palcoscenico. Le Copa Girls ci passano vicino mentre finiscono il numero di apertura e anche loro hanno le lacrime agli occhi. Invece di correre ai loro camerini, se ne stanno a guardare in piedi lungo le scale, sui due lati del palcoscenico. Avevano sentito tutti la campana a morto e volevano esserci. E noi andammo avanti e uccidemmo tutti, compresi noi stessi. (…) Ci furono urla, lacrime, applausi. Sembrava la notte di Capodanno, anche se era ancora luglio. Dean e io ci dirigemmo verso l’ascensore, allontanando quelli che si avvicinavano. Quando le porte si chiusero, ci abbracciammo, lasciando che la diga cedesse. Arrivammo al nostro piano, e grazie a Dio non c’era nessuno in giro. Andammo nelle nostre suite e chiudemmo le porte. Presi il telefono e chiamai Dean. “Ehi, amico”, disse. “Come va?”
“Ancora non lo so. C’è una cosa che voglio dirti: insieme ce la siamo spassata, no, Paul?”
“Continueremo a spassarcela”.
“Già, beh, stammi bene”.
“Anche tu, pardner”.
Riagganciammo e chiudemmo il libro di quei dieci anni grandiosi, tolti gli ultimi dieci mesi. Quelli erano stati tremendi. Dieci mesi di sofferenza e rabbia, incertezza e dolore. Adesso era tempo di rimettere insieme i pezzi. Non sarebbe stato facile…