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 2017  agosto 23 Mercoledì calendario

Il battesimo di Sacchi nella notte che rivelò la bellezza del Milan

Più di trentamila a San Siro, per Milan-Bari di Coppa Italia. È la prima partita ufficiale di Sacchi sulla panchina rossonera e c’è tanta curiosità: sarà davvero così diverso il Milan del frenetico Sacchi da quello del serafico Liedholm. Curiosità anche per gli altri nuovi: gli olandesi Gullit e Van Basten, più Ancelotti su cui Berlusconi ha molti dubbi: «È sempre acciaccato, mai al 100%». «Mi va bene anche al 70%, garantisco io» è la risposta del tecnico. In pratica, gli olandesi prendono il posto degli inglesi Hateley e Wilkins, ceduti come Dario Bonetti, Di Bartolomei, Borghi e Galderisi. Da Parma Sacchi si è portato Mussi, Bianchi e Bortolazzi. I tifosi si chiedono: saranno da Milan? La domanda vale anche per Sacchi. Un signor Nessuno, fin lì, per il grande calcio. Tempo al tempo, e vedrete.
Il Milan parte con questa formazione (4-4-2, what else?): G. Galli; Tassotti, F. Galli, Baresi, Bianchi; Donadoni, Ancelotti, Bortolazzi, Gullit; Virdis, Van Basten. Arbitra Pairetto. Primo tempo sonnacchioso, con sprazzi di Milan ma anche di Bari (Laureri, Maiellaro, Perrone che si beve in un fazzoletto Galli e Baresi, ma il Galli portiere è bravo nell’uscita bassa). Il Milan segna con Donadoni, destro dal limite, e Virdis, a porta vuota. Nel secondo tempo il ritmo cresce e gli olandesi pure. Segna Van Basten, sinistro rasoterra da 20 metri, poi Gullit, di testa su cross di Donadoni. Il gol più sacchiano è il quinto: Gullit a centrocampo contrasta Cowans e gli porta via il pallone, contropiede (ripartenza, direbbe l’Arrigo) sulla destra e cross per Van Basten che di testa prolunga per il solitario Massaro (entrato al posto di Virdis). Non può essere ancora il Milan di Sacchi, serve un po’ più di tempo, ma qualcosa si vede. Manca l’intensità, parola molto cara a Sacchi, ossia la capacità di evitare cali di ritmo e di concentrazione nell’arco della partita. Già si vede la volontà di fare pressing a tutto campo, mentre è da perfezionare la tattica del fuorigioco (il famoso braccio alzato di Baresi, che manda in crisi più d’un guardalinee). Si vede anche un gioco veramente di squadra, in cui Gullit fatica a inserirsi ma si inserirà. È il gioco che fa grandi i giocatori, pensa e proclama Sacchi, non viceversa. E lo dimostrerà battendo il Real Madrid con gol di Mannari.
La sostanza della rivoluzione sacchiana, perché di rivoluzione si tratta, è in pochi dogmi: non esiste il fattore-campo, fuori casa il Milan gioca come a San Siro. Non ci si adatta agli avversari né si cambia formazione in funzione loro, conta solo il nostro gioco e la capacità di imporlo. Chi gioca meglio vince sempre, o quasi. Non sono facili i primi mesi milanisti, per Sacchi. Negli ottavi di Coppa Italia è eliminato dall’Ascoli, nei sedicesimi di Coppa Uefa dall’Espanyol di Javier Clemente, non esattamente due squadroni. Non tutti i giocatori digeriscono i suoi metodi, il marcamento ossessivo, ogni movimento collettivo studiato e ristudiato. Qualcuno va a lamentarsi dal presidente, ma Berlusconi non rinnega la scelta: i conti si faranno alla fine, l’allenatore non si tocca. Alla fine, arriva lo scudetto grazie anche al 3-2 sul campo del Napoli di Maradona. E, l’anno dopo, Champions al primo assalto. Milan grandissimo e fortunato (la nebbia di Belgrado). Da tutto il mondo arrivano al Milan richieste di allenatori che vogliono assistere al lavoro settimanale di Sacchi. Si fanno paragoni con il calcio olandese degli anni ‘70, quello dei giocatori “universali”. Da lì il Torino di Gigi Radice aveva preso il concetto di pressing, non sistematico però. Quello effettuato dal Milan è continuo, e se un avversario sfugge alla gabbia ecco il cosiddetto fallo tattico, a quei tempi punito più blandamente. Con le regole di oggi, Baresi chiuderebbe espulso non poche partite. Allora, bene così. I gusti sacchiani, influenzati dall’ideologo, il maestro Belletti, pendevano dalla parte degli altruisti: Di Stefano e non Pelé, Suarez e non Sivori, Falcao e non Platini. A chi gli rimproverava di essere stato un terzino men che mediocre poi passato a guidare grandi campioni, Sacchi rispondeva che a nessun fantino è mai stato chiesto un passato da cavallo. Considerava il calcio all’italiana un gioco da pitocchi e rafforzava così la sua idea: «Ho sentito un tecnico straniero dire questo: se il campo da calcio fosse lungo due chilometri trovereste la squadra italiana negli ultimi 20 metri». Chi fosse questo tecnico straniero non l’ha mai detto. In tempi in cui ancora si discuteva tra marcatura a uomo e a zona, Sacchi ha imposto la cultura del lavoro, e non è uno slogan. I suoi allenamenti riproducevano la partita, stessa intensità. «Se un maestro come Benedetti Michelangeli si esercita due ore al giorno con le dita sui tasti, non vedo perché non dovrebbero farlo i calciatori allenando testa e piedi col loro strumento di lavoro, il pallone».
Il Sacchi migliore è durato fino al secondo posto dei mondiali ’94, giocati in un clima umido primo nemico del suo tremendismo atletico. Poi s’è bruciato al fuoco da lui stesso acceso, non ha retto allo stress di un calcio che, vissuto troppo in profondità, consuma e prosciuga. Ma ha fatto fare al Milan e al calcio italiano un salto di qualità impensabile. Al calcio in generale, anzi. C’è un prima e un dopo Sacchi, gliene va dato atto. Il signor Nessuno nella storia del calcio è entrato dalla porta grande, forse trent’anni fa non ci sperava nemmeno lui.