la Repubblica, 23 agosto 2017
Quando gli editori erano gli scrittori
Mi sono convinto e non da oggi che la storia della casa editrice Einaudi sia una sorta di romanzo collettivo che attraversa il Novecento, con mille peripezie, idilli, scontri all’arma bianca, eroi che appaiono e scompaiono (anche tragicamente), ascesa e decadenza di un Principe indiscusso… A giudicare da quanto se ne è scritto e parlato non c’è paragone con le altre Case editrici italiane. Sembrava già detto tutto da volumi di storia, raccolte di carte, lettere, verbali, testimonianze personali ed ecco che salta fuori un nuovo capitolo come è capitato con il diario di Daniele Ponchiroli pubblicato dalla Normale di Pisa sessant’anni dopo la sua stesura grazie a Davico Bonino e pieno di notizie, pettegolezzi e anche cattiverie (Bollati contro Calvino, Calvino contro Fortini…). Dunque il romanzone einaudiano è una sorta di conversazione infinita che dura diverse generazioni con attori che cambiano per forza di cose e con al centro, oggetto di dispute e duelli, la letteratura e poi la storia, la politica e la critica: la cultura, insomma e a un certo punto anche il mercato che tutto divora e condiziona.
Intanto Gian Carlo Ferretti ha fissato con precisione e dovizia di documenti il ritratto di un grande einaudiano, Cesare Pavese, prendendolo proprio dal lato editoriale, sicché il titolo L’editore Cesare Pavese risulta appropriatissimo se si pensa che l’autore di Lavorare stanca fu di fatto il direttore editoriale dello Struzzo per tutti gli anni Quaranta, moltiplicando se stesso nelle varie vesti di traduttore, lettore di manoscritti, giudice spesso ultimo, interlocutore degli autori o aspiranti tali e infine autore e dunque (c’è un capitolo su questo tema) editore di se stesso. Basta leggere le lettere di Pavese per vedere quanto contassero per lui il lavoro, l’editoria, la letteratura, lo scrivere. Pavese, quando deve giudicare, non è tenero: «Sabotate Tecchi in tutti i modi, anche disonesti» e per Silvio D’Arzo, che aveva proposto Casa d’altri, decreta: «Non m’interessa affatto. A morte». Non pubblica Se questo è un uomo di Primo Levi, perché rifiuta in blocco la troppa memorialistica relativa alla guerra, alla Resistenza e simili. In calce a una lettera di Fortini che caldeggia la pubblicazione di una storia partigiana di Luciano Della Mea, Pavese annota: non mi riguarda.
Ma a parte i no (che rifila anche al giovanissimo Sanguineti le cui poesie vengono definite «giochi di prestigio») Pavese va valutato, come editore, soprattutto per i molti sì e l’infinita cura con cui seguì tanti libri. È quasi commovente rileggere le lettere (anche piene d’amore) alla Pivano che traduce Spoon River o alla Calzecchi Onesti che affronta Omero. Pavese si occupa un po’ di tutto, anche dei Millenni, la grande collana di classici antichi e moderni. E a un certo punto, stufo di leggere romanzi inediti, si getta a capofitto nel progetto e nella cura della Collana viola che affronta il mito, il folclore, l’inconscio attraverso libri che aprono nuovi orizzonti come Il ramo d’oro di Frazer, L’io e l’inconscio di Jung, Sesso e repressione sessuale tra i selvaggi di Malinowski.
Si avvale della collaborazione di Ernesto De Martino e colloquia con molti altri studiosi che non sempre a De Martino piacciono. Pubblica Mircea Eliade per il valore della sua opera, anche se ha un passato nazista. Questo gli vale un attacco da Ambrogio Donini che arriva a sostenere la necessità di invitare pubblicamente i compagni a non leggere il libro. Anche la pubblicazione del saggio di Volhard sul cannibalismo è tormentata: l’autore è un teorico del razzismo e per giunta poco scientifico.
Pavese, come si sa, muore suicida il 27 agosto del 1950, sopraffatto dalla solitudine e dalla depressione. Gli subentreranno Giulio Bollati, il già citato Ponchiroli e naturalmente Calvino. Nessuno di loro, scrive Ferretti, è un erede di Pavese, così come non lo è Vittorini che di lì a poco mette mano alla collana di narrativa dei Gettoni. Dopo la scomparsa di Pavese escono le poesie, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (iniziativa criticata da Pampaloni a cui risponde Calvino) e il diario Il mestiere di vivere stroncato da Moravia che accusa l’autore di «vanità infantile, smisurata, megalomane».
Quasi contemporaneamente all’uscita del saggio di Ferretti, è arrivato in libreria anche Letterati editori di Alberto Cadioli (Il Saggiatore), un lavoro in progress a cui Cadioli si dedica da decenni, continuamente integrando e aggiornando. I letterati in seno all’editoria rimandano a imprese in cui l’artigianato non è ancora stato soffocato dall’industria e qui Cadioli può raccontare, risalendo fino a Serra, una lunga vicenda che vede protagonisti Vittorini, Calvino, Sereni e Debenedetti attenti lettori di libri altrui e ingegneri di nuove collane, come le Silerchie (Il Saggiatore) o Centopagine (Einaudi). È Bollati a sottolineare che poche volte aveva visto Calvino coinvolto come nel progettare le Centopagine e lo stesso Calvino era convinto dell’importanza delle collane per raggiungere meglio il pubblico. A questo proposito vale la pena di segnalare il capitolo che Cadioli dedica a Luigi Rusca, «letterato imprenditore». Nato nel 1894, Rusca era un appassionato cultore di letteratura latina e nel corso del tempo tradusse diversi autori, da Aulo Gellio a Tertulliano e Plinio il Giovane. Era un liberale antifascista e dopo aver ricoperto vari incarichi si ritrovò negli anni Trenta alla Mondadori per progettare nuove collane. Dobbiamo a lui se ancora oggi un poliziesco si chiama in Italia giallo:aveva infatti creato una collana di “libri gialli” e poi una di “libri azzurri”, un’altra di “libri neri “(dedicata ai thriller, ma in realtà appannaggio di Simenon. Contribuì anche alla “Biblioteca romantica” nata sotto la direzione di Borgese con l’intento di proporre scrittori romantici stranieri tradotti da scrittori italiani. Poi c’erano i libri verdi, e cioè la Medusa, inaugurata nel 1933 con Il grande Meaulnes di Alain-Fournier di cui Rusca aveva detto «è un romanzo meraviglioso: l’ho letto due volte».
Rusca ebbe poi dei contrasti con Mondadori e passò alla Rizzoli. Qui costruì un altro capolavoro: la Bur, collana popolare di classici italiani e stranieri antichi e moderni a prezzi molto bassi e proprio per questo con una tiratura alta. Racconta Cadioli un aneddoto: sembra che Rizzoli, felicemente stupito del buon andamento della collana sulla quale aveva espresso qualche perplessità, abbia detto a Rusca: «Lei mi ha imbrogliato, altro che cultura! Con questi libri qui si guadagna un sacco di soldi». Nella Bur (cui molto collaborò Paolo Lecaldano) povera e grigia, a suo modo elegantissima, trovarono posto un’infinità di libri, dai Promessi Sposi a Dante, da Balzac a Mark Twain e persino (un vero sfizio) all’antologia in quattro volumi dei Poeti minori dell’Ottocento confezionata da Ettore Janni. Poi, con gli anni Sessanta, sarebbe venuto il momento degli Oscar Mondadori. L’editoria cambiava passo, come tutto del resto.