Il Sole 24 Ore, 23 agosto 2017
Le baby mafie giocano anche fuori casa
La cultura mafiosa in erba gioca impunita anche fuori casa. Ne sa qualcosa Simone Di Meo, giornalista e scrittore napoletano che pochi giorni fa ha presentato il suo ultimo libro – Gotham City – Viaggio segreto nella camorra dei bambini – a Praia a Mare (Cosenza).
Un pugno di giovani sgherri campani, fuggiti al primo apparir delle divise dei Carabinieri, lo hanno insultato e minacciato con l’accusa, che fa sempre capolino in queste occasioni, di voler parlare male di Napoli e di arricchirsi alle spalle della sua gente. Un film già visto con Roberto Saviano.
La “paranza” è una realtà da anni
Quei moscerini, quel pugno di muschilli, come vengono chiamati in dialetto, che si sono agitati a Praia a Mare nello sconcerto dei presenti, hanno giustificato senza se e senza ma le morti scatenate dalla paranza (così viene definita la baby camorra) che continua a terrorizzare Napoli. Al punto che ormai si dà per assodato che nel vuoto di potere dell’atomizzazione camorristica, questi giovanissimi fedayn del terrore mafioso, si ammazzano nella speranza di ristabilire a vantaggio di chi resta vivo (per un po’) le regole del potere affaristico, a partire dal traffico di droga.
Napoli, Caserta e la Campania, insomma, sono un film dell’horror al quale l’Italia si sta drammaticamente abituando. Così è Gotham City che nei fumetti e nella filmografia è la città più oscura di tutta l’America. Quell’oscurità che pervade non solo strade e vicoli della Napoli più spenta ma, soprattutto, il cuore di giovanissimi che non conosceranno mai la luce.
Laboratorio di mafie nel Cosentino
A preoccupare è il fatto che la pellicola si replica ovunque, anche in interi quartieri di Roma e Milano, che sono in balia di giovanissimi criminali usati dalla criminalità organizzata come carne da spaccio, rapine, furti, intimidazioni e macello.
Di Meo ha scelto il luogo giusto per testimoniare al mondo l’incrocio tra le culture mafiose delle giovani leve camorristiche e della ’ndrangheta: l’Alto Tirreno cosentino. In quel tratto di Calabria, devastata negli anni dal sacco edilizio agevolato da mafia e politica, lo Stato ci ha messo del suo, mandando negli anni 70 al confino camorristi di peso che non ci hanno messo molto a stringere matrimoni d’affari – a partire dal traffico di droga – con il potente clan Muto di Cetraro, uno dei pochi a dare del tu a Cosa nostra. Un laboratorio esplosivo della criminalità organizzata che in quel tratto di terra un tempo famosa come Riviera dei cedri, ha consentito uno sviluppo silente di giovani leve mafiose.
L’incursione dei giovanissimi campani che trasudavano cultura mafiosa non sarebbe stata possibile senza questo retroterra. Ciascuno comanda in casa propria e quando scatta il contropiede fuori dai confini geografici è un segnale che non sai come leggere. Se come una cementata unità tra le ultime generazioni delle vecchie famiglie indebolite dai colpi inferti dallo Stato o come un’ammissione di debolezza della quale le istituzioni tutte (dalla scuola alle amministrazioni locali, spesso assenti) dovrebbero approfittare.
Il vuoto di potere da colmare
Fatto sta che l’Alto Tirreno cosentino, dopo le batoste al clan Muto al quale vengono continuamente sottratti patrimoni plurimilionari che giungono fino a Roma, dallo scorso anno assiste alle scorribande delle giovani leve che intorno a quel clan girano e che di quel clan si alimentano. Soprattutto dopo il recentissimo sequestro di molti locali dello sballo estivo, che hanno rallentato ma non fermato il floridissimo business dello spaccio di droga e dei servizi di guardiania e sicurezza, la movida è sottoposta agli umori dei giovani balordi aspiranti boss, che scelgono se e quando trasformare i punti di incontro in luoghi di rissa o, come è accaduto nell’agosto 2016, per regolare i conti con le giovanissime leve dei clan cosentini che nell’apparente vuoto di potere dei Muto provano a conquistare posizioni.
Una lotta mortale per una provincia che continua a credere di essere immune dal virus mafioso nonostante che Nicola Gratteri, capo della Procura di Catanzaro, dopo l’ennesimo arresto il 19 luglio 2016 del capocosca Franco Muto, disse che «controllava anche il respiro del territorio». In questo lembo devastato dall’incuria umana – che ospita paradossalmente, da Scalea ad Amantea, oasi di turismo residenziale nel quale si ritrovano come vicini di ombrellone magistrati antimafia e politici chiacchierati – l’orologio dell’economia e della quiete sociale è ora in mano a queste giovanissime leve. Sono loro che continuano a esercitarsi in numeri scontati (pizzo, estorsioni, incendi, intimidazioni e mercato ittico) e a tentare acrobazie da circo, in grado di alimentare linee di comando e investimenti di capitali sporchi nel turismo e nel commercio come è accaduto finora.
La movida di Reggio sotto scacco
Quel che accade nella provincia di Cosenza non è un’eccezione tanto da far pensare a una precisa strategia in Calabria delle famiglie di peso, di “lanciare” le giovani leve in avanscoperta per costringere le forze dell’ordine e di sicurezza – i cui numeri, al Sud, sono sempre maledettamente insufficienti o, peggio, lontano dalle strade e dai compiti operativi o da mirati servizi di intelligence contro le cupole mafiose – a occuparsi di loro. Una distrazione di massa già scattata nel passato. Non si spiegherebbe altrimenti perché dallo scorso anno la provincia di Reggio Calabria è attraversata dallo strapotere dei giovin virgulti dei clan di Archi (il quartiere di Reggio che è il regno incontrastato, in primis, della famiglia De Stefano) che ad agosto tirano fuori la testa dalla cloaca arcota per seminare terrore tra locali e ritrovi. Il monito estivo serve per far capire che a comandare, 365 giorni all’anno, sono sempre loro. Sempre le stesse famiglie.
Il copione, però, si ripete anche nella provincia di Vibo e allora, come diceva Agatha Christie, vale forse la pena di riflettere che un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza ma tre indizi fanno una prova. In Calabria, oltretutto, le coincidenze non esistono.
Difficile convivenza in Sicilia
Anche in Sicilia le giovani leve mafiose avanzano, tra una rapina e una piazza di spaccio. Il gioco di chi li manovra è sempre lo stesso: continuare a sopraffare il concorrente e stringere alleanze mobili anche fuori dai propri mandamenti. Anche qui, come in Campania e Calabria, le decapitazioni dei vertici di cosche e clan obbligano i giovani e i giovanissimi ad avventurarsi verso scalate che talvolta sono ostili o più forti dei propri mezzi ma, a differenza delle altre due regioni, il ritorno in libertà di vecchi punti di riferimento anche se non di primissimo piano, obbliga a convivenze forzate. «Le fonti della memoria, gli anziani, custodiscono le regole e le regole, che servono a far funzionare l’organizzazione – si legge nell’ultima relazione della Procura nazionale antimafia – vengono costantemente portate a conoscenza dei soggetti più giovani». Le famiglie che hanno affidato il controllo del territorio a elementi impulsivi e talvolta spregiudicati, incapaci di calcolare le conseguenze delle proprie decisioni, lontani dallo stereotipo di Cosa nostra, devono fare ricorso ai consigli di anziani e uomini d’onore «chiamati a sopperire, con il loro carisma, a giovani reggenti inadeguati», incalza l’ultima relazione della Direzione investigativa antimafia (Dia) sul secondo semestre 2016.
In provincia di Palermo, scrive sempre la Dia, «l’organizzazione si sforza di conservare una struttura unitaria e verticistica, sebbene l’aver concesso a famiglie e mandamenti una maggiore autonomia abbia indotto alcuni giovani boss e varie articolazioni territoriali all’assunzione di decisioni talvolta non condivise». Nella provincia di Messina, invece, «le attività criminali condotte da giovani leve spregiudicate sarebbero per lo più finalizzate al sostentamento di numerosi affiliati in carcere».