la Repubblica, 22 agosto 2017
Più debito o meno crescita, il dilemma del Dragone nella scalata al benessere
PECHINO Sarà meglio frenare sul debito o accelerare sulla crescita? Come l’asino di Buridano, il Dragone di Xi Jinping si ritrova all’improvviso prigioniero di un pericolosissimo dilemma che però, volenti o nolenti, riguarda tutti noi: la seconda potenza mondiale non rappresenta, da sola, un quarto dell’economia globale? I segnali, all’apparenza, non sono incoraggianti. Perché se scricchiola anche il mattone allora sì che sono guai. E infatti: per il secondo mese consecutivo i prezzi delle case crescono meno del previsto. L’aumento passa dallo 0,9% allo 0,6%, e la differenza farà anche sorridere ma il dato preoccupa perché fotografa il 70% del mercato immobiliare, quello delle città dell’interno che pure non sono ancora vittime del freno anti speculazione che già morde Pechino e Shanghai. Il Wall Street Journal avverte che se agosto conferma il trend di giugno e luglio c’è poco da stare allegri. Ma il paesaggio è piatto anche altrove: malgrado i numeri suggeriscano vette a noi sconosciute. La crescita della produzione industriale è la più debole degli ultimi cinque mesi: 6,4% contro il 7,1% delle previsioni. Le vendite al dettaglio le più basse dall’inizio dell’anno: 10,4% contro il 10,8%. L’indice Capex che misura gli investimenti sugli asset durevoli (come i macchinari) sale dell’8,3% contro l’8,6% previsto: la performance peggiore da gennaio. Ma allora com’è che il Fondo monetario nel paper di pochi giorni fa prevede un’espansione oltre le aspettative?
Il problema è, paradossalmente, proprio quello. La crescita del Pil nel 2017 rivista al 6,7%, contro il 6,2% iniziale, è la dimostrazione che qualcosa non va: perché l’economia si espande, sì, ma sempre grazie al debito che non scende abbastanza. È il racconto di due città: applicato alla stessa. «Il Fondo monetario mette in guardia la Cina sui suoi pericolosi livelli di debito», titola il Financial Times. Ma l’identico rapporto è accolto diversamente a Pechino. «Sostiene il Fondo monetario – scrive il governativo China Daily – che la forte crescita apre la strada per accelerare le necessarie riforme». Chi ha ragione? Dietro le lenti rosa, a ben guardare, la formula usata dai cinesi non è meno allarmante: perché se le riforme sono «necessarie» vuol dire che senza si rischia grosso. Peccato che la parola “ri-forme”, malgrado il mandarino non conosca declinazioni, può intendersi, qui, in tante “forme”: soprattutto alla vigilia del congresso quinquennale che in autunno rieleggerà Super Xi. E dunque. La sovracapacità industriale che finalmente ridotta porterebbe anche alla riduzione dei crediti concessi a queste stesse aziende. I debiti che nelle imprese non finanziare ammontano ormai a 17,9mila miliardi di dollari. La sovracapacità immobiliare perennemente a rischio bolla. Nell’ultima Conferenza nazionale sulla finanza, a luglio, Xi ha promesso «progresso mantenendo stabilità»: giurando tolleranza zero nei confronti di quei colossi di stato, Soe, State Owned Enterprises, che nell’ambiente sono simpaticamente conosciute come “zombie”, morti che camminano facendo debiti invece di profitti. Il problema è che tra “progresso” e “stabilità” la strada è strettissima.
L’Fmi sostiene che nel 2022 il debito eccederà il 290% del Pil, contro il 235% dello scorso anno. E questi livelli di debito ridurrebbero lo “spazio fiscale” che rappresenta la capacità di movimento per reagire a una crisi. Charlene Chu, l’ex esperta di Fitch che puntò il dito contro i rischi delle banche cinesi, stima che i crediti inesigibili abbiano raggiunto addirittura 7 mila e 600 miliardi di dollari: la cosiddetta ratio dei “debiti cattivi” salirebbe così al 34% contro il 5,3% ufficialmente riconosciuto. Ma perché il debito continua a salire malgrado gli sforzi di calmierarlo? Proprio in queste ore il governo ha ratificato lo stop alle spese all’estero definite “irrazionali”: quelle cioè portate avanti dai Quattro Cavalieri delle Acquisizioni – Anbang, Hna, Fosun e Wanda – che dopo essere stati usati come ariete per sfondare nel mercato globale comprando di tutto, dal Waldorf Astoria a Miss America, oggi sono accusati di aver esagerato la fuga di capitali, e di essersi ingranditi a botte di debiti. Ma chi aveva tenuto aperti i rubinetti fin qui?
Il fatto è che in questo socialismo “con caratteristiche cinesi” è l’economia a essere una sovrastruttura della politica, non il contrario. Il governo ha promesso di trasformare la Cina in una «società moderatamente benestante» entro il 2020, alla vigilia del centenario del partito, e farà di tutto per ottenere l’obiettivo: a costo di mettere a rischio lo stesso sistema? «Xi Jinping sa bene che non si può avere la botte piena, frenando sul credito, e la moglie ubriaca, spingendo sulla crescita», spiega a Repubblica Michele Geraci, professore di finanza alla New York University di Shanghai. Da qui, due opzioni. «La prima è lasciare il conto a chi verrà dopo: un po’ come successe nell’America del boom di Bill Clinton, poi costretta a fronteggiare la Grande Recessione. La seconda è optare per una crescita moderata dai freni al credito: meno ricavi ma di qualità, stop agli zombie di stato, spinta alla green economy». Ma anche qui a comandare sarà la politica: se davvero il nuovo Mao punta a regnare anche dopo il prossimo quinquennio, la battaglia al congresso sarà decisiva. «Se vince, potrebbe optare per la prima strada. Ma se stravince, il conto per non aver intrapreso la via più sana potrebbe pagarlo lui stesso tra un po’: e allora perché non provare a incamminarsi lì subito?».
Come l’asino di Buridano, il Dragone di Xi si ritrova prigioniero di un pericolosissimo dilemma: ma a differenza del suo povero predecessore non sembra, al momento, destinato a soccomberne.