Corriere della Sera, 22 agosto 2017
In morte di Guido Rossi
Paola Pica per il Corriere della Sera
Si diceva negli anni 90 in Piazza Affari che, per uscire dai guai, solo due erano i numeri di telefono necessari. Uno era del banchiere Enrico Cuccia. L’altro, quello del professor Guido Rossi, uno che di questioni complicate si è occupato sempre su larga scala e più di una volta nelle istituzioni. Fino a venir riconosciuto come è accaduto ancora ieri, nel giorno della sua morte, «un’autorità nel mondo del diritto e della democrazia».
Dal suo appartamento di Milano, nella casa affacciata su Piazza Castello dove abitava anche Umberto Eco, l’ex presidente della Consob e padre della legge Antitrust ha continuato, finché gli è stato possibile, a seguire i collaboratori, assistito come sempre, dalla moglie, l’avvocata Francesca Luchi. Rossi si è spento di primo mattino a 86 anni compiuti lo scorso 16 marzo. Non gli è mancato nelle ultime ore il conforto delle figlie, le due minori Sara e Livia, attrice, e Alessandra avuta dal primo matrimonio. Non saranno celebrati funerali religiosi per rispettare la volontà del giurista che si dichiarava ateo. Aveva militato in Giustizia e Libertà e su questo binomio, giustizia e libertà, a ben guardare, ha costruito tutta la sua vita professionale di «self made man».
Confessava che a spingerlo è stata sempre una gran curiosità, qualità che ieri gli è stata riconosciuta tra gli altri dall’amico e collega Pier Gaetano Marchetti e che lo ha portato ad allargare i propri interessi a molti campi, non ultimo quello dell’arte dove si è distinto come importante collezionista e scopritore di nuovi talenti.
Come filosofo del diritto ha anticipato e condotto molte battaglie, ma è forse soprattutto nelle vesti di economista che ha precorso i tempi. Di sicuro, almeno in Italia, Rossi è stato tra i primi a comprendere la profondità della crisi scoppiata nel 2008 con il fallimento della banca americana Lehman Brothers, definendola subito «peggio del ‘29».
Negli anni, ha più volte lanciato l’allarme per l’eccesso di finanziarizzazione dell’economia. Sua la stima della «massa» finanziaria, composta per lo più di derivati, i titoli ad alta speculazione, che vale quasi sette volte il Pil mondiale, cioè l’economia reale (nel 2010 si parlava di 450 mila miliardi di titoli speculativi contro 70 mila miliardi di Pil globale). Resta d’attualità, tra i suoi molti testi, «Il mercato d’azzardo» scritto nel 2008.
Nato a Milano nel 1931 e lasciato alle cure della sola madre, commessa in Comune, Rossi si è laureato in giurisprudenza all’Università di Pavia nel 1953, conseguendo poi nel 1954 il Master of Laws ad Harvard, dove viene inviato e sostenuto dai docenti italiani in virtù dei risultati raggiunti. Rientrato in Italia, il giurista vince il concorso per l’insegnamento universitario iniziando a Pavia un’importante carriera universitaria che lo porta negli atenei di Trieste, Venezia e Milano, alla Statale, all’Università Vita-Salute San Raffaele e alla Bocconi come professore emerito.
Tra i tanti suoi studenti, c’è anche una giovanissima Barbara Berlusconi che sostiene con lui un esame di etica delle public company. Il voto è 28 e il colloquio impegnativo, considerato che l’anticonformismo del professor Rossi lo ha portato talvolta ad affermare, per esempio, che la governance etica è «un insopportabile ossimoro» o che i consiglieri indipendenti sono «i gigolò della finanza».
Come Senatore (Sinistra indipendente) si adopera per dare al Paese la prima legge sulla Concorrenza. Ci riesce nonostante l’ostilità degli stessi parlamentari comunisti. La collocazione politica gli vale l’epiteto di «miliardario rosso» ma non gli impedisce di continuare a essere il super pagato consulente dell’establishment, il risanatore di Montedison, il due volte presidente di Telecom Italia. Rossi lavora per la Mediobanca di Cuccia e per le grandi famiglie del capitalismo italiano, dagli Agnelli ai Pirelli, in ultimo i Riva, assistiti anche recentemente nella partita sull’Ilva.
Rossi segue le partite più importanti, dall’acquisto della Rizzoli-Corriere della Sera da parte di Gemina, alla contesa tra De Benedetti e Fininvest per Mondadori. Nel 2006 dopo lo scandalo Calciopoli diviene commissario Figc, incarico con cui si trova a festeggiare la vittoria dell’Italia ai mondiali di calcio a Berlino.
Ma l’incarico vissuto più intensamente resta quello di presidente della Consob, la Commissione che vigila sulla Borsa, della quale promuove il rafforzamento dei poteri, in tempi di grandi misteri. È il 1982, l’anno del crac dell’Ambrosiano e della morte di Roberto Calvi.
L’ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ieri ha ricordato l’ex presidente della Consob «per l’affermazione di regole democratiche rigorose nell’area dell’attività economica e della tutela degli interessi dello Stato».
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Salvatore Carrubba per Il Sole 24 Ore
Un gran borghese desideroso, e capace, di sorprendere e di spiazzare: così ricorderemo Guido Rossi, scomparso ieri a 86 anni, i cui contributi sul Sole 24 Ore hanno fornito ulteriore testimonianza di una miscela, ormai rara, di dottrina, capacità professionale e passione civile.
Dalla sua carriera, punteggiata di incarichi prestigiosi quale quelle di presidente della Consob, di Ferfin-Montedison e (per due volte) di Telecom, di commissario (senza rinnegare la fede interista) della Federcalcio e di senatore della Sinistra indipendente, emergono i tratti di una personalità capace di accoppiare al riconosciuto magistero professionale e accademico una curiosità e un acume che si esprimevano in posizioni e giudizi taglienti e controcorrente. E nascevano da questa capacità di visione, ancorata a una salda dottrina acquisita prima negli studi a Pavia e Harvard, poi nella lunga e prestigiosa pratica professionale, una visione non compiacente del capitalismo o, quanto meno, di quelle che egli ne giudicava, soprattutto in questi ultimi, convulsi anni di crisi, delle autentiche aberrazioni.
Due titoli relativamente recenti lo confermano: nel libro “Il gioco delle regole”, Rossi denunciava la tentazione, sempre all’opera, di superare la certezza del diritto attraverso quella «superfetazione normativa che è uno dei tratti dominanti della forma che il capitalismo sta assumendo»; una superfetazione che, lungi dal consacrare la certezza del diritto, rende quest’ultimo oggetto costante di scambi di natura contrattualistica, ossia espressivi di interessi esclusivamente privati, in un quadro deformato del diritto che trova compiuta espressione letteraria nel processo al Fante di cuori in “Alice nel paese delle meraviglie”.
In un testo scritto nel pieno della crisi finanziaria che colpì gli Usa nell’autunno di dieci anni fa, “Il mercato d’azzardo”, Rossi completava le sue riflessioni sui rischi sistemici rappresentati dal nuovo assetto delle proprietà industriali e dall’impatto di questo sui mercati finanziari, ormai sottoposti a una normativa di nuovo conio ma di sapore antico: «La strana lex mercatoria, creata dalla globalizzazione dei mercati finanziari in una sorta di revisione del diritto universale in voga nel Medioevo, ha molto ridimensionato il diritto legislativo dei singoli Stati».
S’intrecciavano qui due elementi portanti del pensiero di Guido Rossi, che possiamo considerare anche tra i suoi lasciti più significativi: l’insistenza per la tutela della concorrenza; e la riflessione spassionata sugli sviluppi del capitalismo, non solo finanziario. Lo sottolinea Giuliano Amato, in un suo ricordo per Il Sole 24 Ore nel quale l’ex presidente del Consiglio definisce Guido Rossi «severo custode del mercato concorrenziale e per questo severo critico di tanti operatori sprezzanti delle regole».
Ce n’era abbastanza dunque perché Rossi assumesse le vesti di personaggio scomodo: espressione dell’establishment borghese quanto pochi altri, Rossi non coltivava le furbizie e non condivideva la scorciatoie alle quali non pochi rappresentanti di quel mondo indulgevano. E quando la crisi esplose anche in Europa, colpendo in particolare l’Italia, Rossi non si adeguò alle opinioni ortodosse, per denunciare, accanto all’avventurismo finanziario, la fallace illusione dell’austerità quale unica e salvifica terapia. Rileggendo in chiave storica l’insistenza tedesca in questa direzione, e con spunti di riflessione che oggi sarebbe interessante poter discutere con l’autore, Rossi osservava su questo giornale: «Se la Germania vuole rimanere nell’euro non può continuare a imporre agli altri Paesi una politica recessiva e impedire che i Paesi debitori possano partecipare a un’Unione politica e economica che realizzi il sogno di John Maynard Keynes di un sistema monetario internazionale nel quale creditori e debitori siano responsabili per mantenere la stabilità. Un’uscita della Germania dall’euro, per falsi moralismi e ottusi egoismi... non vorremmo mai succedesse, auspicando invece che l’attuale atteggiamento di dominio tedesco sull’Europa si possa trasformare in una straordinaria cooperazione di civiltà tra i popoli».
Non sorprende perciò come negli ultimi anni Rossi denunciasse i rischi che questo corrompimento dell’autentica visione europeista potesse determinare sulla natura stessa, e sulle sorti, della democrazia, già messa a repentaglio dal prevalere dell’economia sulla democrazia. Lo ricorda ancora Giuliano Amato: «La grande passione e visione europeista di Guido Rossi ne faceva un uomo capace di pensare in grande, come capita sempre di meno».
Non era necessario perciò essere sempre d’accordo con Rossi (io, ad esempio, leggevo con sofferenza la sua denuncia della «ideologia neoliberista del mercato efficiente che si autoregola ed equilibra, ispirato alla politica del “laissez-faire” e della deregolamentazione delle attività economiche») per subirne il fascino intellettuale. In questo senso, definire Guido Rossi come una tra le migliori espressioni della borghesia significa sottolineare non un’appartenenza di censo ma una vocazione sociale. Dialogando in occasione del centocinquantesimo anniversario della Società del Quartetto, gloriosa istituzione musicale milanese di cui lo stesso Rossi era stato presidente, l’avvocato sottolineava quanto fosse significativa per definire quel ceto la sua «dimensione culturale», che ne ha reso unico un suo spezzone, ossia la borghesia milanese, «un ceto sociale estremamente attivo e con uno spirito innovativo per la società, al contrario di quello che è successo dopo».
Di nuovo, in cauda venenum: diceva quelle parole non per alimentare un profilo, che non gli apparteneva, da bastian contrario, ma per contribuire a richiamare la società italiana - in primis la politica e la finanza - all’esigenza di pensare, di studiare e di agire (secondo la legge).