21 agosto 2017
In morte di Jerry Lewis
Adriano Celentano per il Corriere della Sera
Ciao Jerry! Non so se qualcuno ti ha mai detto che in Italia c’era un tizio che scimmiottava le tue mosse. Furono i miei primi successi.Ciao Jerry! Non so se qualcuno ti ha mai detto che fin dai primi tempi, esattamente dal «nipote picchiatello» in poi, in Italia c’era un tizio che scimmiottava le tue mosse. Furono quelli i miei primi momenti di successo, naturalmente solo con gli amici al bar, ma più di tutti con mia cognata Ivonne. Lei era addirittura affascinata, a tal punto che un giorno, senza dirmi niente, spedì una mia foto ad un concorso per sosia in cui imitavo una delle tue irresistibili smorfie. Solo attraverso i giornali appresi che il concorso lo avevo vinto io. Allora facevo l’orologiaio e, fra un tic-tac e l’altro, un mio caro amico, che senz’altro avrai conosciuto, mi propose di rifare in uno spettacolo di varietà la coppia «Jerry Lewis – Dean Martin». Il suo nome è Tony Renis e, naturalmente, era lui che faceva Dean Martin. Un successo che non durò più di due settimane però porto a entrambi molta fortuna! Grazie!! Se penso a quanto sei stato GRANDE qui sulla terra non posso neanche immaginare quello che combinerai Lassù.
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Maurizio Porro per il Corriere della Sera
È morto ieri a Las Vegas a 91 anni, dopo un finale di partita molto sofferto, che l’aveva portato all’anticamera del suicidio per molte gravi malattie, quel fanciullone di Joseph Levitch, che per il mondo era Jerry Lewis, con la sua faccia sbilenca, gli occhi storti, i denti finti, i movimenti picchiatelli.Lewis, nato nel 1926 nel New Jersey, era figlio d’arte e cultura ebraica, cresciuto nel baule degli artisti di varietà. A 5 anni faceva le imitazioni e cantava nei night coi genitori. Cresciuto, incontra sulla sua strada un altro entertainer, Dino Crocetti, per il mondo Dean Martin, formando una strana coppia comica, come Laurel e Hardy, Gianni e Pinotto, Matthau e Lemmon, che fa ingrassare i conti della Paramount, il cui boss Hal Wallis firma per loro un contratto di diecimila dollari la settimana che diventarono poi 5 milioni di dollari l’anno ciascuno. Ben spesi se si considera che nei 50 furono al top di popolarità e incassi dopo che Jerry aveva provato le gioie da self made: fattorino, commesso e maschera in un cinema. Niente andrà perduto; intanto sposa la cantante Patti Palmer (quattro figli) e nell’83 la ballerina SanDee Pitnick, una figlia.I due ragazzi irresistibili si incrociano per caso al 500 Club di Atlantic City il 26 giugno 1946, e mandano subito in tilt l’America dei night: il cantante confidenziale all’italiana di «That’s amore» è interrotto dal fare scimmiesco del ragazzotto pasticcione che viene deriso. Cabaret, radio, tv, night, infine il cinema, dove i due artisti tramandano gesta di amici nemici, il bello e il brutto, il furbo e il tonto. Raccolta singolare, stereotipata, talvolta irresistibile di 16 film spesso scritti da Lewis, dalla Mia amica Irma al Caporale Sam fino a Hollywood o morte, con Anita Ekberg prima della Dolce vita, gag e musiche. Incrociando nipoti pic chiatelli e artisti e modelle, diretti da grandi della commedia slapstick come Frank Tashlin e Norman Taurog, Jerry e Dean deformano e rifrangono i tic nevrotici americani e non mancano polemiche sull’ironia presunta verso disabili. E ironizzano sui generi ( Mezzogiorno di fifa), si esercitano nei remake ( Il nipote picchiatello da Frutto proibito e Più vivo che morto da Nulla sul serio ), finché frequenti litigi li portano alla rottura, siglata il 25 luglio 1956 al Copacabana di New York. Lewis, che curerà il vecchio Laurel, nota destini comuni: lui e Stanlio lavoratori, Dean e Ollio gli scioperati.Secondo tempo: mentre Martin cresce con capolavori di Minnelli e Hawks, arrivando poi al chiacchierato clan Sinatra dei Colpi grossi, Lewis rimane fedele alla comica ed esaspera l’infantilito sapiente per 23 film, fino al ’70, doppiato da Carlo Romano. Lavora spesso col prediletto Tashlin ( Il balio asciutto, Il cenerentolo, Dove vai sono guai, Pazzi, pupe e pillole ), vince il Golden Globe con recita Boeing Boeing. Prima gira filmetti in 8 mm. parodiando i successi, diventando poi egli stesso autore assai apprezzato dai francesi di Positif e i Cahiers : Lewis, seguendo la tradizione dello «schlemiel», il piccolo ebreo vittima, ricalcando le orme di Charlot, Keaton, Danny Kaye e un po’ anche Woody Allen, recitando con tutto il corpo e soprattutto con la mimica facciale, è l’eterno perdente contro cui si scaglia la società che lo ridicolizza e lo rimanda al mittente, come una bomba scoppiettante di malinconia.Il primo Jerry regista è Ragazzo tuttofare, fantasioso ritorno alla comica finale, cui seguono L’idolo delle donne, Jerry 8 e ¾, titolo felliniano, Tre sul divano inevitabile parodia freudiana, e il divertentissimo psycho horror Le folli notti del dr. Jerryll. Si ride con Scusi, dov’è il fronte?, parodia chapliniana bellica, come nel Ciarlatano fa quella del poliziesco, affrontato in Controfigura per un delitto. Ma è soprattutto sugli usi e costumi Usa che l’attore si esercita smontando ogni giocattolo del consumismo, accanendosi contro la psicanalisi ( I 7 magnifici Jerry ), in un processo comico che lo vede protagonista e vittima, quasi cartoon, utilizzando un ritmo convulso per abbattersi sulla psicologia middle class, preda del consumismo tv di sentimenti obbligatori. Il lungo silenzio che segue è dovuto alle malattie, al lavoro benefico della «Casa della risata», all’impegno democratico, alle tournée teatrali: venne anche a Milano ma era già un clown triste. Finché nel ’79 rientra in Bentornato picchiatello (e Qua la mano picchiatello ) ma è un esperimento patetico, le sventure di un clown sulle luci quasi spente della ribalta.L’unico vero ritorno glielo offre Martin Scorsese, che lo utilizza al meglio come idolo comico della tv rapito dal fan Robert De Niro in Re per una notte, azzannando l’ultimo mito made in Usa, la popolarità virtuale tv. Mai Oscar, ma Tarantino gli diede un premio alla carriera nel 2010, prima che il MoMa a New York gli dedicasse per i suoi 90 anni, il 16 marzo 2016, una retrospettiva e dopo aver vinto a Venezia nel ’99 un Leone d’oro a una carriera condivisa da Europa e Usa.
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Roberto Nepoti per la Repubblica
Milano Da decenni Jerry Lewis soffriva di gravi problemi di salute, che lo avevano sottratto alle scene facendo dimenticare, troppo in fretta, la portata del suo contributo al cinema.
Perché Lewis, nato nel 1926 col nome di Joseph Levitch e scomparso ieri a Las Vegas a 91 anni, è stato molto più del candido “nipote picchiatello” delle commedie giovanili: dopo Chaplin, Keaton e Langdon nel muto, ha rappresentato il più rilevante talento comico americano all’epoca del sonoro. Con Woody Allen, se si vuole: però superiore ad Allen nella conoscenza e nell’innovazione del mezzo cinematografico; fornendo, come regista, capolavori di cinema moderno come Le folli notti del dottor Jerryll.
Certo, Jerry aveva cominciato con film molto più semplici. Dopo la gavetta sui palcoscenici dove, figlio d’arte, si era esibito fin da bambino, aveva recitato in radio e televisione, poi al cinema; dove era arrivato assieme a Dino Crocetti, in arte Dean Martin, il cantante-entertainer con cui fece coppia fin dagli anni Quaranta. Assieme a Dean formò un duo popolarissimo: Martin gli faceva da spalla come giovane adulto virile e acchiappasottane; Lewis (non senza implicazioni psicanalitiche) era invece il personaggio fissato all’infanzia, regressivo e bisognoso di protezione; nonché timoroso delle donne: che alla fine, comunque, conquistava. Dal 1949 al ’56 la coppia recitò in sedici film della Paramount come Occhio alla palla, Artisti e modelle, Il nipote picchiatello, piazzandosi sempre tra i primi dieci incassi americani dell’anno. Nel 1956, con Hollywood o morte, il sodalizio tra Jerry e Dean si chiuse (e non in modo pacifico). Da allora al 1970 Lewis comparve in ventitré film, ne diresse dieci. Affinò e complicò la sua personalità di attore comico, dando nuove sfumature al “carattere” del piccolo uomo alle prese con una società incomprensibile. Dove Chaplin aveva risposto con la stizza e Keaton con il disdegno, Lewis ne definì una nuova variante parossistica e demenziale, venata di nevrosi. Nel suo primo film come regista, Ragazzo tuttofare (1960), di cui è anche soggettista e sceneggiatore, interpreta il personaggio muto di un fattorino d’albergo; seguono – tra gli altri – L’idolo delle donne, l’eccezionale parodia Le folli notti del dottor Jerryll, la satira della psicanalisi Tre sul divano, la brillante revisione comica del film di guerra Scusi, dov’è il fronte? Spesso (ottimamente) doppiato da Carletto Romano, Lewis si conferma attore comico dei più irresistibili. Rivela anche, però, una eccezionale consapevolezza del mezzo cinematografico. Profondo conoscitore del funzionamento delle gag, osservatore acuto delle strutture del comico, non si limita a riprodurre il modello dei suoi film di successo: anzi, attraverso lo “smontaggio” sistematico del linguaggio filmico, opera una critica sistematica sulla società americana contemporanea. Come un regista della Nouvelle Vague francese, ma in chiave comica, smantella i luoghi comuni del cinema e frustra le aspettative più ovvie del pubblico, chiamandolo a collaborare al senso della pellicola. Nell’epilogo del Dottor Jerryll arriva a introdurre nell’inquadratura la macchina da presa, denunciando l’illusione di realtà di cui lo spettatore è complice-vittima né più né meno di un Godard o di un Fellini. Non a caso, la critica europea e la rivista “Cahiers du Cinéma” lo esaltano come “total filmaker”.
Docente di corsi d’arte drammatica a Hollywood, Lewis fu anche uno sperimentatore di nuove tecniche: applicò, per esempio, in modo sistematico quella del video-assist, controllando in contemporanea le riprese su diversi monitor. Nel 1972 diresse e interpretò un dramma ambientato in un campo di concentramento nazista, The Day the Clown Cried, mai distribuito per controversie sui diritti; poi si ritirò dal cinema per quasi un decennio, durante il quale comparve solo in trasmissioni televisive di beneficenza.
Afflitto da gravi problemi fisici (a cominciare dalla rottura di una vertebra durante le riprese di un vecchio film), Lewis tornò sullo schermo all’inizio degli anni Ottanta con Bentornato picchiatello, collage delle sue vecchie scene slapstick sul filo conduttore delle disavventure di un clown. In seguito comparve in pellicole dirette da altri, come Il valzer del pesce freccia di Emir Kusturica. Ma lasciò ancora il segno con un film di Martin Scorsese, Re per una notte (1982), commedia nera sulle perversioni di fama e successo dove interpreta – praticamente – se stesso come popolare presentatore di uno show televisivo perseguitato dal fanatico ammiratore De Niro. L’ultima presenza sullo schermo è un cammeo del 2016 in The Trust – I corrotti, padre del poliziotto Nicolas Cage.
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Vittorio Zucconi per la Repubblica
Prodotto della “Cintura del Borscht”, della catena di alberghi sui monti vicini a New York dove gli immigrati ebrei dall’Europa Orientale trascorrevano le loro estati e lui li intratteneva con parodie di cantanti, Joseph Levitch è morto portandosi via col nome d’arte Jerry Lewis il segreto di un successo che aveva tanti estimatori quanti detrattori. Con la sua comicità apparentemente solo fisica, tutta smorfie, falsetti, spasmi, Jerry aveva disgustato critici e pubblico americani che lo avevano abbandonato. E aveva entusiasmato, per polemica, gli europei e soprattutto i francesi che, fra Legion d’Honneur e premi a Cannes, lo consideravano un gigante incompreso dai rozzi yankees.
Ma Lewis, dietro la sua comicità che poteva sembrare puerile e clownesca, in film di successo come Il nipote Picchiatello, Ragazzo tuttofare, Le folli notti del dottor Jerryll, dietro la sua tenace conduzione del Telethon per la Distrofia Muscolare che raccolse 2 miliardi e mezzo di dollari, era un uomo difficile, astioso, litigioso come lui stesso ammise. E come sapeva Dean Martin che con lui aveva fatto coppia per 10 anni prima di una lite furiosa, composta da Frank Sinatra quando seppe che Martin stava morendo.
Lo amava Spielberg. Lo venerava Jerry Seinfeld, che disse: «Chi non apprezza Lewis non capisce che cosa sia la comicità». Ed era un lavoratore inarrestabile, con parti in teatro a Broadway a 88 anni. Era sopravvissuto a gravi malattie, tre infarti, diabete, cancro alla prostata, fibrosi polmonare, ai quattro pacchetti di sigarette al giorno fumati fino a 80 anni, ma non alla volgarità delle sue opinioni xenofobe e anti profughi, alle battute sui gay – «come sta quel frocio di tuo figlio?» aveva chiesto a un cameraman in diretta – al suo essere accanitamente repubblicano in una Hollywood accanitamente democratica. Non sopravvisse al più grande dolore della sua vita, più della perdita di uno dei suoi sette figli: la esclusione dal Telethon annuale nel 2011, dopo le esternazioni anti gay. Da allora, non fece ridere e non rise più.
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Alberto Infelise per La Stampa
Non aveva bisogno di parlare Jerry Lewis per fare ridere, gli bastava fare finta di pestare le dita su un’immaginaria macchina per scrivere. Se esiste (ed esiste) una tradizione comica ebraica che ha trovato la Terra Promessa nella East Coast degli Stati Uniti, Jerry Lewis ne è stato uno dei figli prediletti. Nato nel 1926 a Newark, New Jersey - uno Stato più piccolo del Piemonte ma che ha generato un terzo degli artisti americani dell’ultimo secolo -, crebbe con il padre David Levitch e la madre Rachel Brodsky, ebrei russi emigrati nella terra dei sogni e delle speranze, in un ambiente destinato a formare un artista determinato. Il padre era un attore di vaudeville, la madre una pianista. Lui, Joseph Levitch, cresce robusto e belloccio, sfacciato e irriverente. Imita i compagni di scuola, e vabbè. Imita i professori, e un po’ meno vabbè. Uno dei docenti della Irvington High School dove viene mandato a studiare lo prende di mira perché è ebreo. Lui non ci sta e invece di farsi prendere di mira prende a sberloni l’insegnante. Espulso.
Poco male, perché al di là di qualche lavoretto saltuario, Joe Levitch inizia a lavorare in locali e piccoli teatri proponendo i suoi sketch. Per non sfidare troppo la sorte e facilitare il compito a fan e promoter, corregge il nome in Jerry e il cognome in Lewis. Quando ottiene un lavoro come maschera in un teatro di Brooklyn, sfrutta l’occasione. Di fronte all’impresario imita in maniera parossistica le movenze dei più famosi artisti dell’epoca, cantando in playback. Il ragazzo ottiene una scrittura per una tournée negli Stati Uniti e in Canada. Si parte.
Jerry inizia a farsi conoscere e sposa, nel 1944 la sua prima moglie Patti (resteranno sposati fino al 1980 e avranno sei figli). La svolta arriva subito dopo la guerra, dopo aver conosciuto quello che diventerà il suo più grande amico e partner, Dean Martin. I due formano la coppia comica che gli Studios desideravano ardentemente, dopo il tramonto di Laurel & Hardy e quello dei Fratelli Marx. La loro comicità nasce da un mix perfetto. Bellissimo, astuto ed elegante Martin, buffo, impacciato e sfacciato Lewis. I loro film entrano nella storia del cinema: La mia amica Irma (1949), Irma va a Hollywood (1950), Attente ai marinai! (1952), Morti di paura (1953), Il nipote picchiatello (1955), Artisti e modelle (1955) e Hollywood o morte! (1956). Ad attestare la popolarità della coppia, la DC Comics pubblicò dal 1952 la serie a fumetti intitolata The Adventures of Dean Martin and Jerry Lewis. Dopo dieci anni la coppia perfetta divorzia. Lewis oscura Martin che preferisce dedicarsi al Rat Pack con Sinatra, Sammy Davis Jr., Peter Lawford e Joey Bishop.
Lewis riparte da solo. E dopo qualche tempo torna a funzionare, anche come regista, fino al suo capolavoro, Le folli notti del dottor Jerryll (The Nutty Professor), del 1963.
Lewis non era una persona semplice. Era certamente un duro, secondo molti colleghi che avevano lavorato con lui e non avevano tutta questa fretta di rifarlo ancora. Fu Martin Scorsese a offrirgli un ruolo memorabile nel 1983. È il Jerry Langford di Re per una notte (King of comedy), un personaggio amarissimo, un comico di grande successo sequestrato dal suo più grande fan (Robert De Niro), comico anch’egli ma ossessionato dal non poter essere dotato come lui.
Dopo una vita segnata da innumerevoli problemi di salute, Lewis è morto ieri nella sua casa di Las Vegas, dove viveva con la seconda moglie SanDee. Oltre alla sua eredità di comico (forse Jim Carrey è quello che più gli somiglia) lascia il suo esempio di filantropo: il suo Telethon ha raccolto negli anni oltre due miliardi e mezzo di dollari.
In una delle sue ultime interviste all’Hollywood Reporter, richiesto di dare un consiglio ai giovani comici, ha affidato il suo lascito: «Cercatevi un lavoro d’ufficio».