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 2017  agosto 21 Lunedì calendario

Il giocatore nero che rifiutò l’inno finisce al museo

New York La storia giudicherà Colin Kaepernick. Gli abiti indossati dal quarterback dei San Francisco 49ers quando rifiutò, un anno fa, di alzarsi in piedi nello stadio durante l’inno nazionale, avranno un posto d’onore in una mostra del museo Smithsonian di storia e cultura afroamericana.
La mostra è dedicata al movimento Black Lives Matter, che protesta contro il razzismo e le violenze della polizia sugli afroamericani. «Non starò in piedi per dimostrare il mio orgoglio per la bandiera di un Paese che opprime i neri e le minoranze etniche – disse Kaepernick —. Sarebbe egoista guardare dall’altra parte. Ci sono cadaveri per le strade, e persone che la fanno franca». Trump gli consigliò di cercarsi un altro Paese. Molti tifosi lo giudicarono irrispettoso verso gli Stati Uniti, e qualcuno arrivò a bruciare la sua maglia. Molti altri lo hanno appoggiato: ieri un gruppo di poliziotti ha manifestato a Brooklyn indossando magliette con lo slogan #iamwithkap.
Kaepernick è finito in un museo ma da allora non gioca. Dopo aver lasciato i 49ers (altrimenti lo avrebbero mandato via loro), non c’è squadra che lo voglia – e nessuno crede che le ragioni siano tecniche. Nella National Football League i giocatori sono per il 70% neri, mentre gli spettatori sono bianchi (il 77%, più della media nazionale). I proprietari (bianchi) non vogliono rischiare. Il coach dei Baltimore Ravens voleva reclutarlo ma è stato bloccato dal proprietario Steve Bisciotti che avrebbe detto che la scelta «scontenterebbe molti». Bisciotti, come molti imprenditori dell’Nfl, dona di più ai repubblicani che ai democratici. In realtà Kaepernick non è stato il primo a rifiutare di alzarsi in piedi durante l’inno nazionale: lo fece anche Mahmoud Abdul-Rauf, giocatore di basket dei Denver Nuggets convertito all’Islam, negli anni Novanta. Ma allora non ci furono critiche: i social media non esistevano.