Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  agosto 20 Domenica calendario

Svegliati Marco. Il video del Toro una luce nel buio

Agosto, mese di premiazioni. Forse per questo si notano di più le differenze e si capisce che, nel nostro calcio, parlare di cultura della sconfitta è solo un modo per dare aria ai denti. Supercoppa all’Olimpico, si sa com’ è andata. Premiazione dei secondi classificati. I colli si abbassano per ricevere la medaglia. E poi: Marchisio se la toglie scendendo dal palco, all’inizio dei gradini. Khedira se la tiene. Mandzukic se la toglie, idem Chiellini e Higuain. Benatia se la tiene. Pjanic e Rugani se la tolgono. Dybala se la tiene. I due portieri di scorta se la tolgono. Allegri se la toglie e la mette in una tasca. In sostanza, ognuno fa come gli pare, non ci sono indicazioni precise su come comportarsi. Probabilmente non sta scritto da nessuna parte che è più giusto tenere al collo la medaglia, per rispetto di chi ha vinto ma anche di se stessi, del cammino percorso per arrivare a una finalissima. Tant’è che il discorso va oltre la Juve, che è solo la più recente della lista. Si può fare anche di peggio: non presentarsi alla premiazione, come fece nel 2012 il Napoli a Pechino (espulsi Pandev, Zuniga e Mazzarri) per protestare contro l’arbitraggio di Mazzoleni dopo la rimonta della Juve. Possibile variante, attuata quest’anno a Prato dopo la finale del Berretti. Il Torino si presenta per ritirare le sue medaglie, poi esce in blocco dal campo quando la premiazione riguarda l’Inter, che ha vinto. Prima, avevamo visto Bolt sorridere per una medaglia di bronzo, l’ultima della sua meravigliosa carriera. E sorridere ancora, ringraziando il pubblico, dopo esser crollato a terra nella staffetta. Avevamo visto Gatlin, l’ex dopato, il ragazzaccio, inchinarsi in pista a Bolt, dopo aver vinto l’oro. Avevamo visto Mo Farah dare l’addio alle gare in pista baciando la sua ultima medaglia, “solo” d’argento dopo che aveva firmato la doppietta 5/10.000 alle Olimpiadi di Londra e di Rio, ai mondiali di Mosca e di Pechino. L’ultima grande finale l’aveva persa a Daegu nel 2011: oro nei 5mila, argento nei 10mila. Quest’anno il contrario. Avevamo visto Katie Ledecky abbracciata a Federica Pellegrini, che pure rimontandola nei 200 le aveva tolto la possibilità di fare bottino pieno di medaglie d’oro: 400, 800, 1.500 più due staffette. E non avevamo pensato: ecco, questo è sport. Avevamo pensato qualcosa di simile: ecco, anche questo è sport, forse è quello che ci piace di più, ma non si deve generalizzare, è questione di gusti. Allo smedagliamento della Juve manca qualche immagine. Come s’è regolato Buffon? E Asamoah? Per quel che s’è visto, a tenersi al collo la medaglia sono stati solo calciatori non nati in Italia, ma è un dato parziale, quindi la pista non è percorribile. Non lo è nemmeno quella del torto subìto. Allegri è stato il primo a riconoscere che la vittoria della Lazio era del tutto meritata. Certo, resta il comprensibile bruciore di chi raddrizza il risultato, pur giocando maluccio, e si fa battere nei minuti di recupero. Bruciore umanamente comprensibile, ma nessuno scippo. E allora cos’ è che rende tanto difficili da portare al collo, manco fossero macigni, le medaglie dei secondi? Certo: segnalano una sconfitta, e quando vorresti vincere sempre non ti piace perdere, ma vincere sempre non si può e comunque non si cancella una sconfitta rifiutando di portare addosso anche per pochi minuti un qualcosa che la rappresenta. Mentre fai questi ragionamenti sei investito da un coro unanime: c’è sempre da imparare dalle sconfitte. Allora pensi di aver visto un altro film e cambi discorso. Dalla Juve al Torino. Che ha registrato, li ho visti e ascoltati su repubblica.it ieri, una serie di messaggi per Marco Mathieu. Marco è un giornalista di Repubblica, dello sport di Repubblica. Da un mese è in coma, dopo un incidente stradale. E noi, come tutti, speriamo che ne esca presto. È tifoso del Toro, non l’ha mai nascosto. E il Toro, per bocca di Ljajic, Belotti, Iago Falque e Sirigu, l’ultimo arrivato, lo invita a svegliarsi, ricomincia il campionato. Il più commovente (guarda che aggettivo mi tocca usare) è Mihajlovic nella parte di se stesso. «Marco, ti do ancora un giorno», gesto col dito, «per svegliarti, hai dormito abbastanza. A Bologna vogliamo vincere per te, ma tu devi esserci. Il mio telefono ce l’hai: chiamami e non farmi incazzare». Dai Marco, magari non oggi perché non dipende solo da te, ma non fare incazzare Mihajlovic: svegliati e sarà un bellissimo giorno. Precisazione per il lettore. Avrei scritto queste righe anche se al posto di Mathieu ci fosse stato un giornalista di altra testata e a dargli affetto una squadra che non fosse il Torino. Perché tra noi dei giornali e quelli del calcio, dai dirigenti ai giocatori, non spira una buona aria, per usare un eufemismo. È così da molti anni, e va peggiorando. Ogni tanto compare una lucciola, le so riconoscere, questa del Toro lo è. Sarò un illuso, ma mi sembra un buon avvio di campionato.