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 2017  agosto 20 Domenica calendario

Nella casa dell’imam: «Nessuno sospettava di quel predicatore»

Ha l’aria stanca e sconcertata Narddin el Hagi dopo la notte insonne per la perquisizione dei Mossos d’Esquadra. «Erano una decina, con un interprete di arabo, hanno portato via reperti per l’analisi del Dna». E gira, Narddin, ancora incredulo, per le tre stanzette, ormai sottosopra, del micro appartamento, molto modesto, che condivideva con l’imam Abdel Baki Essati, ormai sospettato di essere – come anticipato da Repubblica ieri – il leader della cellula del terrore, forse morto nell’esplosione di Alcanar la notte prima dell’attacco alla Rambla. La casa è al quarto piano di un antico edificio di calle Sant Pere a Ripoll. Gentilissimo, lascia entrare tutti e il salottino si riempie di telecamere e fotografi. «In realtà – dice – con Abdel ci conoscevamo pochissimo. Abbiamo iniziato a abitare qui quattro mesi fa. Ma ognuno faceva la sua vita, non parlavamo quasi mai. Martedi scorso mi ha detto che tornava dalla sua famiglia, dai figli, per un paio di settimane. Non so altro». Narddin, 46 anni, è emigrato dal Marocco come l’imam, e fa lavori saltuari nei mercati della zona. «Abdel predicava e insegnava arabo nel centro di culto musulmano, ma due mesi fa aveva smesso di andarci». «Se mi immaginavo che stesse preparando un attentato? Assolutamente no». «Se conoscevo i ragazzi che ha guidato al martirio? No». Ripoll, il luogo che ha tenuto a battesimo il gruppo di giovani jihadisti degli attacchi a Barcellona e a Cambrils, è un elegante borgo medioevale di 10mila abitanti, a settecento metri d’altezza, all’inizio dei Pirenei, non lontano dalla frontiera con la Francia. Adagiato in un magnifica vallata, Ripoll è ricco di storia. Per il suo monastero romanico famoso per la biblioteca di manoscritti ma anche per essere la vera culla della Catalogna che qui venne fondata verso la fine dell’anno mille. Ad un certo punto divenne importante per le officine che lavoravano il ferro e costruivano armi da fuoco. Ma poi conobbe un importante sviluppo grazie all’industria tessile. «Ci lavoravamo tutti nel tessile fin da bambini», ricorda Carme, una anziana signora che incontriamo nella piazza del palazzo del Comune e alla quale non riusciamo a strappare nemmeno una parola di spagnolo. «Io sono nata qui, dice. Sono catalana, non parlo spagnolo». L’indipendenza è ovunque. All’ingresso del borgo, sui palazzi, ci sono dei grandi cartelloni con scritto “Sí”, quello che dovranno votare se all’inizio di ottobre ci sarà davvero il sospirato referendum. Le vie, i giardini, gli edifici, tutto è curatissimo e pulito. Un luogo perfetto per occultare la genesi di un gruppetto di jihadisti radicali trasformati in assassini, probabilmente in pochi mesi, da un imam di 46 anni che, hanno rivelato ieri fonti dell’antiterrorismo, era stato in carcere nel 2012 per questioni legate al permesso di soggiorno. Due mesi fa, secondo quanto hanno riferito a El País alcuni vicini di casa, l’imam prima di lasciare Ripoll disse che aveva intenzione di trasferirsi in Belgio. Senza spiegare perché. Tutto incredibile e perfino assurdo pensano in molti. All’ingresso della casa dei genitori dei fratelli Oukabir, Moussa e Driss, uno morto e l’altro in carcere, una signora catalana inveisce contro i giornalisti: «Avete scritto molte menzogne. La comunità marocchina – 500 persone – qui è perfettamente integrata nella nostra vita. Io sono venuta a vivere in questo edificio undici anni fa insieme alla famiglia Oukabir e non c’è mai stato alcun problema tra noi». È la litania che ripetono in molti come se fosse impossibile accettare che una cittadina così bella e antica potesse partorire l’orrore di un gruppetto di killer invasati e assassini.