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 2017  agosto 19 Sabato calendario

Il fantasma del Grande Gioco. La guerra fredda di spie tra russi e inglesi davanti a una tazza di tè

Il confronto nell’Ottocento fra le due potenze fu chiamato “Great Game” da Kipling La scacchiera era l’Asia. Ma la scena mutò con un incontro lungo i cammini che salivano sull’Himalaya «The Great Game», il grande gioco, come lo battezzò Rudyard Kipling, è stata una vicenda di paranoia collettiva basata su falsi presupposti e alimentata dalla stampa popolare inglese. Dopo la guerra di Crimea – il primo avvenimento militare coperto da resoconti giornalistici dal vivo – era rimasto famoso il reportage di John Russell, pubblicato dal “Times”, sulla carica di Balaklava. L’Inghilterra era diventata una potenza imperiale che andava a com-battere in latitudini e longitudini remote. In Africa contro gli zulù, in Nuova Zelanda contro i maori, in India contro i sikh. Ma nessuna di queste storie guerresche aveva il fascino ed era seguita come la guerra non dichiarata tra russi e inglesi che aveva come sede le vallate dell’Himalaya, abitate da strane popolazioni con gli occhi azzurri e i capelli biondi, in un paesaggio drammatico. All’inizio dell’Ottocento i confini dell’impero russo distavano oltre tremila chilometri da quelli dell’India, il pezzo più pregiato di un puzzle chiamato Impero britannico. Ma con il passare del tempo la distanza tra i due confini si era accorciata, calando a poche centinaia di chilometri. Già durante il regno di Pietro il grande la politica russa era diventata espansionistica. Prendendo come pretesto il vuoto di potere dell’Asia centrale, dove non esistevano nazioni ma solo aggregazioni tribali chiamati Khanati, i russi avevano inglobato ogni anno un territorio pari alla superficie del Belgio. In previsione di ulteriori avanzate lo zar aveva mandato verso est come descubridor uno straordinario personaggio, il grande esploratore Nicolaji Przheval’skij, un russo dal nome impossibile, dalla volontà di ferro e dalle abitudini sessuali anomale. Non permetteva ai suoi soldati di abbandonare la divisa e durante le estenuanti marce attraverso il Tien Chan, le montagne celesti dell’Asia centrale, dove abitano i tirghisi, li faceva marciare come fossero a una parata del reggimento Preobrazenskij. Come sempre nei paesi coloniali dopo gli esploratori seguivano le truppe. In Africa orientale dopo Livingstone erano arrivate le giubbe rosse. Nell’Asia centrale dopo Przheval’skij arrivarono i cosacchi. Nel 1865 la grande città protetta da un muro imponente, Tashkent, era caduta sotto le cariche dell’esercito russo e tre anni più tardi era stato il turno di Samarcanda e di Bukhara. Ogni volta che la Russia incorporava nuovi territori, i suoi dirigenti si preoccupavano di far sapere al Foreign Office che l’espansione andava in direzione est verso il Pacifico e non verso sud. E che lo zar non aveva avanzato pretese sull’India non essendoci piani per impadronirsi dell’intera Asia centrale. Ma quando i russi, tre anni più tardi dopo Samarcanda, presero Khiva, a Londra come a Calcutta l’indignazione era alle stelle. Tutti ormai pensavano che fosse solo questione di tempo per l’arrivo dei cosacchi a cavallo che avrebbero fatto risuonare gli zoccoli dei cavalli sulle pianure indiane. Anche il feldmaresciallo Lord Robert di Kandaar, comandante dell’esercito indiano dall’83 al ’93, era antirusso e giurava sull’invasione. Ha dell’incredibile come un uomo considerato il miglior soldato che abbia mai avuto l’Inghilterra dopo Wellington, non fosse informato che sugli otto passi che conducono dal Turkestan cinese in India sei erano impraticabili e solo due, il Minthaka Pass e il Khunjerab Pass, che si trovavano ad una altitudine di oltre ottomila metri, erano transitabili solo d’estate unicamente da due o tre uomini alla volta. L’unica via aperta per tutte le stagioni passava per l’Afghanistan attraverso il Khyber Pass. Ma gli inglesi dovevano sapere meglio di altri che entrare in Afghanistan in forze era un atto molto pericoloso. A metà dell’Ottocento il residente britannico con la sua guardia personale era stato massacrato da una folla che aveva bruciato anche la sede della residenza e qualche anno più tardi una carovana di afgani amici degli inglesi, scortata da truppe britanniche, era stata sterminata prima che arrivasse ai confini con l’India. In attesa dei cosacchi che non arriveranno mai, il comando britanni- co in India cominciò ad organizzare un reseau di spie che andassero sulle montagne. Improvvisamente i cammini che salivano sull’Himalaya e attraversavano un posto drammatico come il Pamir – definito dagli esploratori un «abominio di desolazione» dove le carovane d’inverno rischiavano di essere congelate dal vento gelido che portava la temperatura a meno sessanta gradi – furono percorsi da strani individui che si facevano passare per cacciatori o geografi e che per meglio avvalorare la loro identità si portavano dietro le carabine, tutti gli strumenti dei geografi come il teodolite. Ogni tanto questi geografi inglesi incontravano dei loro sosia russi in cima presso il lago Karakal o sotto le pendici della montagna del Mustagata. L’incontro tra le spie mascherate si svolgeva secondo l’etichetta vittoriana e gli inglesi, travestiti da cacciatori, chiedevano informazioni sull’ovis povis o sul markhor, due bestie dalle corna immense. Prima di lasciarsi i due gruppi si applicavano alla cerimonia del tè: gli inglesi tiravano fuori il Darjeeling, mentre i russi bevevano secondo la tradizione, un tè molto forte, scuro ed affumicato, chiamato Russian caravan. Il migliore racconto di come si è svolto il «Great game» si trova in Kim di Rudyard Kipling. Il protagonista del libro è nato in India come il suo autore, ma vissuto sempre per la strada sopravvivendo con piccoli furti di frutta e altro al mercato. L’aspetto è quello di un ragazzo di undici, dodici anni, ma la mentalità è quella di un adulto che sa valutare situazioni e persone con grande freddezza. La scuola della strada gli aveva aguzzato l’ingegno e per le sue capacità viene assoldato da un mercante afgano e introdotto nel «Great Game» come spia. Memorabile è la scena in cui Kim è costretto a memorizzare tutte le pietre che stanno su un vassoio, aggiungendo il loro colore e la loro dimensione, dopo averle viste per pochi secondi. Il racconto che fa Kipling delle sue avventure lungo l’asse ferroviario che attraversa l’India e lungo le montagne dell’Himalaya, è una delle migliori descrizioni dell’India fatta da un occidentale. In Inghilterra ebbe un successo immenso: l’esploratore Wilfred Thesiger, uno dei primi che abbia attraversato il deserto Rub al Khali, il più pericoloso del mondo, portava sempre una copia di Kim nel sacco da montagna. Come Bruce Chatwin si portava sempre dietro The Road of Oxiana di Robert Byron. Il «Great Game» sparì come era spuntato, annullato per le diverse strategie delle grandi potenze. Adesso quello che preoccupava l’Inghilterra non era più la Russia ma la Germania e tra Londra e Pietroburgo ci furono reciproci accordi che definivano i confini in Asia con la creazione che aveva suscitato molta emozione, aveva prodotto molta letteratura e fatto vendere giornali, ma non era finito in nessuna guerra.