la Repubblica, 19 agosto 2017
Air Berlin, salvataggio in tempi record ma c’è rischio antitrust
Si annunciano tempi record per il salvataggio di Air Berlin. Dopo aver portato i libri in tribunale a Ferragosto, la low cost tedesca è già preda di numerosi contendenti che hanno avviato ieri ufficialmente i negoziati per accaparrarsene i pezzi migliori. E il vettore berlinese ha fatto sapere di aver rimandato sine die la presentazione della semestrale, prevista per ieri. La maggiore concorrente sul mercato tedesco, Lufthansa, sembra interessata alla stragrande maggioranza degli aerei Air Berlin, 90 su 140 secondo Reuters, ma dal governo tedesco è arrivato un invito un po’ stucchevole alla cautela. La ministra dell’Economia, Brigitte Zypries, ha detto che Air Berlin dovrà valutare attentamente come procedere: «Una sola compagnia non può rilevare interamente Air Berlin e i suoi slot», perché dominerebbe troppo il mercato. Ma alla luce dello zelo con cui l’esecutivo sta aiutando la low cost dal marchio rosso a rimanere tedesca – un desiderio espresso ufficialmente dal ministro dei Trasporti Dobrindt – anche col tempestivo prestito ponte da 150 milioni di euro, il monito di Zypries suona un po’ recitato. Il quotidiano Rheinische Post ha calcolato in effetti che se Lufthansa ed Eurowings – l’altra pretendente forte – acquistassero Air Berlin e la controllata Niki, l’antitrust dovrebbe intervenire. In questo caso Lufthansa coprirebbe il 100% delle partenze da Duesseldorf per Berlino, Ginevra, Firenze, Venezia e Salisburgo e la quota di voli Eurowings per Palma di Maiorca – una delle tappe preferite dai tedeschi – passerebbe da meno di un terzo a tre quarti del totale. Ma anche la quota delle partenze per Roma della low cost schizzerebbe dal 25 al 75%. C’è però, nella movimentata partita di Air Berlin, una piccola novità: l’interesse dell’imprenditore di Norimberga Hans Rudolf Wöhrl. Ha fatto sapere che la sua Intro-Verwaltung ha avanzato attraverso uno studio di avvocati di Monaco un’offerta ufficiale. Obiettivo della proposta, fare in modo, con l’aiuto di «partner qualificati», che Air Berlin non venga spezzettata ma sopravviva come compagnia autonoma. Ieri è emerso anche il caso Niki: i sindacati della controllata austriaca di Air Berlin hanno fatto sapere che «il futuro è incerto» e non è chiaro se il marchio fondato dall’ex campione di Formula uno Niki Lauda sarà ceduta a parte. Il governo austriaco sta riflettendo su un eventuale prestito-ponte, se la situazione dovesse precipitare, sulla falsariga di quello già garantito da Berlino ad Air Berlin. E il ministro dei Trasporti, Leichtfried, ha dichiarato: «Non abbandoneremo nessuno». ( t. ma.)
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La bandiera tedesca conta più della regola
A Berlino circola una battuta: quelli che da anni non riescono a finire l’aeroporto della capitale, il BER, adesso vogliono salvare la compagnia aerea più fallimentare della Germania. Lo Stato tedesco ha deciso di aiutare Air Berlin con un prestito-ponte di 150 milioni di euro e non nasconde la sua intenzione di lasciarla, fin dove lo consentano le regole dell’antitrust, in mani tedesche. E pazienza se la low cost dal marchio rosso è un disastro da anni, se non è riuscita a risollevarsi da una gestione pessima neanche in un periodo buono per le compagnie aeree, in cui i prezzi stracciati del carburante e un turismo apparentemente poco inibito dal terrorismo hanno appena regalato a Lufthansa, per esempio un primo semestre di conti floridi. I governi tedeschi non giudicano. Come dimostrano altri casi clamorosi, guardano poco alla sostanza: conta di più la bandiera. E con Air Berlin stanno sfoderando quello che gli economisti chiamano il suo «corporativismo positivo», quella tendenza storica a farsi testuggine e difendere il sistema con le unghie e con i denti. Serve a poco che un autorevole quotidiano progressista come la Sueddeutsche Zeitung noti come «Air Berlin non serva a nessuno», che «abbia rubato spazio in questi anni a concorrenti migliori» e che «lo Stato debba astenersi da ogni intervento, al di là del prestito ponte». Sono considerazioni che pochi ascoltano, ai piani alti della Cancelleria e dei ministeri che contano. L’altro caso che si associa facilmente a questo è quello delle banche. Nell’autunno del 2008, quando la crisi finanziaria provocata dallo tsunami dei subprime americani contagiò l’Europa attraverso il collasso di Lehman Brothers, Angela Merkel corse a Parigi per un drammatico faccia a faccia con Nicolas Sarkozy. Coi suoi, il presidente francese riassunse l’esito di quell’incontro così: «A chacun sa merde». Un modo poco elegante ma efficace per riassumere una frase goethiana della Cancelliera, che gli aveva detto che sul sistema finanziario «ognuno doveva spazzare davanti alla propria porta». Niente soluzioni europee, ognuno avrebbero dovuto tirare fuori i soldi da soli, per salvare le banche. E per Berlino è stato un bagno di sangue, com’è noto. Per mettere a riparo un sistema bancario marcio, infestato di titoli tossici, reduce da una fallimentare corsa a scimmiottare il capitalismo spericolato delle concorrenti americane o, al contrario, schiacciato da quel modello di business e, soprattutto, stradominato dagli interessi dei politici locali, presenti in innumerevoli consigli degli istituti medi e piccoli grazie alle quote pubbliche, il governo Merkel ha speso di gran lunga la cifra più spettacolare, 240 miliardi di euro. Nei momenti chiave, la Germania così zelante nell’additare i Paesi che “non fanno i compiti” dimostra puntualmente di essere capace di dimenticarsi candidamente i suoi e quelli dei manager che decide spudoratamente di salvare, sempre e comunque, e a prescindere dai disastri compiuti.