Corriere della Sera, 19 agosto 2017
La Spagna e sei verità
La strage di Barcellona ci porta sei messaggi.
Primo. Lo Stato Islamico è predatore mutante e adattabile. Così rilancia grazie anche alle iniziative dei protagonisti degli attacchi. Accanto all’azione individuale – ma non solitaria – cresce la cellula ibrida organizzata. Un insieme di elementi, non sempre addestrati, a volte pasticcioni, che partono all’assalto.
T erroristi privi della capacità guerrigliere di quelli che hanno agito a Parigi, ma che cercano di emularli con le armi che hanno. Esplosivo fai da te, veicoli-ariete e i soliti coltelli, come a Tuku (Finlandia). Nella città catalana intendevano usare delle bombole di gas a bordo dei furgoni. È un’evoluzione che abbiamo visto in alcuni episodi in Francia e Gran Bretagna, probabile che diventi una tendenza. Magari con metodi sempre più distruttivi. C’è un’ambizione criminale e politica. Da capire se tutto ciò nasca dall’idea della casa madre o piuttosto per l’intraprendenza dei singoli che vogliono superare chi li ha preceduti. Ciò significa che il quadro potrebbe cambiare nuovamente.
Secondo. Il nucleo è composto da fratelli, congiunti e amici. Di frequente hanno precedenti penali per reati comuni. Spesso il gruppo è locale, legato a un luogo specifico dove vive, lavora, trova ospitalità. Poi acquista mobilità. Il vincolo familiare è la miglior difesa contro l’infiltrazione, il legame di sangue accompagna una radicalizzazione rapida. Non c’è nulla di stabilito.
Terzo. La determinazione conta più di ogni cosa. Devono agire comunque. La distruzione del covo di Tarragona non li ha fermati, ma li ha spinti a lanciarsi a bordo dei mezzi sulle Ramblas. Altri hanno ingaggiato gli agenti a Cambrils. Sembra che avessero preparato piani alternativi. Perché, come predica il Califfo, l’importante è passare all’azione, i risultati verranno. È lo stesso modus operandi messo in atto all’aeroporto di Bruxelles, solo che in quel caso avevano la potente «madre di Satana», miscela letale realizzata in casa.
Quarto. C’è l’emulazione dei mujaheddin che agiscono in Siria e in Iraq. Alcuni militanti «spagnoli» indossavano finte cinture esplosive: volevano forse intimorire la polizia ma anche farsi uccidere indossando il simbolo del kamikaze. Una carica suicida. Infatti queste missioni sono sacrificali, non si torna a casa. Di nuovo: è un fenomeno che si sta ripetendo spesso nelle città europee. È un modo per portare avanti l’idea dello shahid, del martirio. C’è chi attiva la fascia e chi aggredisce un soldato provocandone la reazione. Lo Stato islamico potrà usare il suo sacrificio come esempio per la propaganda, altri imiteranno e introdurranno delle varianti operative – magari low cost – che rendono difficile il compito della polizia. È una regola con eccezioni, visto che ci sono dei fuggiaschi.
Quinto. Mai sottovalutare il nemico. Non c’entra con il massacro di giovedì, però è importante ricordarlo. Solo pochi giorni fa in Australia è stato sventato un attentato ad un jet passeggeri, a pianificarlo tre individui diretti dalla Siria da un dirigente Isis. Una figura capace di spedire fino a Sydney, via posta aerea, esplosivo di tipo militare. Storia che conferma la molteplicità delle minacce e il controllo»remoto» da parte dello Stato islamico.
Sesto. L’Isis più di al Qaeda ha preparato i suoi al mito della sconfitta e alla possibile morte del Califfo. La perdita di Mosul o Raqqa deve essere usata per spingere i militanti alla riscossa. La caduta della roccaforte non è la fine, ma l’inizio. Parole d’ordine per mobilitare soprattutto gli estremisti rimasti in Occidente. La guerra non finirà presto.