Il Messaggero, 19 agosto 2017
Quando Borges incantava in Via Veneto
I libri di memorie letterarie molto spesso sono un po’ noiosi, aneddotici, gossippari. Chissà chi era quel giovane poeta meridionale che, per avere una presentazione, tentò di ingraziarsi Aldo Palazzeschi con un vassoio infiocchettato di dolciumi, sdegnosamente respinto dall’ottantenne poeta. E chi notò il simultaneo pallore sul volto di Italo Calvino e di Elsa De Giorgi quel certo giorno che casualmente s’incrociarono alla presentazione di un libro e molti anni dopo la loro appassionata liaison di cui molto si era favoleggiato e già cominciavano ad apparire accenni, maligne insinuazioni, stralci rubati di lettere? E davvero, alla notizia dell’assegnazione del più che cospicuo premio Feltrinelli, il ligure Giorgio Caproni ebbe come prima preoccupazione quella del futuro esborso erariale? E cosa ignoravano gli scherani di Garboli delle vere intenzioni di Penna quando deplorarono la pubblicazione delle sue prime poesie, molto ingenue, piene d’influenze scolastiche?
BELLA ECCEZIONE
Il libro degli amici di Elio Pecora è una bella eccezione nel ramo. Moravia lo puoi incontrare magari in fila al banco del lotto o affacciato a guardare le prostitute, Elsa Morante mentre diffida il giovane amico dal frequentare Dario Bellezza e Amelia Rosselli perché fanno «affiorare la nostra parte peggiore». Anche Borges appare sdegnoso e irridente in un «negozio di strabilie» di Via Borgognona dove è stato trascinato in quell’esistenza di scintillanti vanità mondano- culturali in cui s’impigliarono gli ultimi esibizionistici anni di vita del gran cieco, poeta delle tigri e dei labirinti. La voce è la stessa «cantilenante e un po’ incantatrice» che conosciamo nel poeta e, anche, nell’inesauribile raccontatore orale che è Pecora.
FILO AGGROVIGLIATO
Il libro degli amici dipana un filo lungo e aggrovigliato, tra cene e incontri vari, anteprime di libri e spettacoli teatrali, librerie mitiche e ancora affollate su cui piomba l’omicidio di Pasolini, ed è come «se quel mondo si fosse risvegliato improvvisamente dalle proprie abitudini». Il racconto è quello del «mondo in cui mi sono mosso, inquieto e a mio modo innamorato», scrive Pecora. E rievoca l’approdo a Roma di lui trentenne napoletano con spalle una «protratta adolescenza di studi giuridici recalcitranti», una notevole propensione mondana e l’insaziabile curiosità. E anche con un destino opposto alla tipica parabola dell’intellettuale meridionale a Roma, tipo d’Annunzio: non per ansia di successo, ma per ansia di realtà, di comunità. Quel mondo, quella realtà quella comunità prendono forma nella società intellettuale, culturale, letteraria tra due decenni dalla fine degli Anni Sessanta agli Ottanta. Pecora non si distrae da se stesso e molto anche si racconta mentre si colloca all’interno della fotografia di gruppo. Appuntamenti, riti, solidarietà, affiliazioni, piccole crudeltà. E magari con qualche colpo di fioretto che parte quasi a sua insaputa, mentre vigila sulla scena delle sue «memorie baluginanti e affetti mai quieti», sempre ricordando un proprio epigramma dedicato a un indefesso scrittore del genere. Che suona così: «A dir male degli altri / si fa presto /basta solo distarsi da se stesso».
In quella Roma dove ancora incontri De Chirico sulla porta di Caffè Greco e Fellini passa per piazza di Spagna, lo sguardo del memorialista è mite, indagatore, curioso, partecipe, Pecora scruta con levità e ironica intelligenza. Senza grandi rimpianti per quel tipo di società «inclusiva e corale anche con possibili gelosie e ripicche, ma con la certezza di un’appartenenza difficile, instabilmente cercata». E disegnando con poche linee ritratti fulminanti tra Bronzino, Grotz, Pericoli. Amelia Rosselli, segnata dalla malattia mentale, «una lucentezza interiore che scardina la regola, scompiglia l’ordine». Moravia che si affanna a prendere il telefono dallo scomodo divano, in lotta perpetua con se stesso. L’argentino Wilcock, provvisto di tanti saperi che scivola in poco tempo dall’ammirazione al fastidio «nella pettegola e suscettibile società letteraria romana», a cui capita di morire proprio il giorno del rapimento di Moro, così nessuno lo ricorda il giorno dopo.