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 2017  agosto 18 Venerdì calendario

Non può mettere il burqa altrimenti offende l’islam

Al Senato australiano lo smarrimento è durato una decina di secondi, il tempo di accorgersi che sì, in aula era davvero entrata una figura inquietante che indossava un burqa nero come la pece.
Poi hanno visto dove andava a sedersi e hanno capito che si trattava di Pauline Hanson, fondatrice e leader del partito di destra “One Nation” nonché senatrice eletta nel Queensland: la quale si è tolta il cappuccio (o come si chiama) e ha detto che la scelta del suo abbigliamento era stata fatta per rafforzare la sua richiesta di vietare il burqa. E ciò che è successo, poi, è interessante: piaccia o meno la pagliacciata della senatrice. Perché stiamo parlando dell’Australia, che assieme ad alcuni stati degli Usa si contende lo scettro del politicamente corretto. Pauline Hanson non è stata semplicemente biasimata, ma è stata condannata con rara durezza praticamente da tutti i partiti, a cominciare da quello liberale del primo ministro Malcolm Turnbull. George Brandis, rappresentante del governo in Senato e procuratore generale, ha fatto un intervento durissimo in cui ha detto non solo che il governo non ha intenzione di vietare il burqa in Australia, ma si è preoccupato soprattutto per la possibilità di aver offeso qualche musulmano radicale dell’Isola: «Senatrice Hanson, non vieteremo il burqa e non fingerò di ignorare la sua trovata di indossarne uno quando noi tutti sappiamo che lei non è di fede islamica. Vorrei metterla in guardia e consigliarle, senatrice, di fare molta attenzione all’offesa che lei potrebbe recare alle sensibilità religiose di altri australiani». Poi Brandis ha detto che in Australia ci sono mezzo milione di australiani di fede islamica (questo nel complesso: non radicali che adottano il burqa) e che la stragrande maggioranza rispetta le leggi, poi ha aggiunto che da procuratore generale lui è responsabile per la sicurezza ma che può garantirla solo collaborando con la comunità islamica: «Ridicolizzare questa comunità, metterla in un angolo e prendersi gioco del suo abbigliamento religioso, è una cosa terribile». Terribile. Ovvio che la questione sia stata ripresa da tutti i giornali australiani, ma la condanna e lo scandalo sono stati maggioritari, e resta istruttivo analizzare reazioni e comportamenti che, di norma, poi si riflettono regolarmente anche dalle nostre parti. Pauline Hanson è, come detto, una politica di destra, magari più intollerante del dovuto sulla questione islamica: ma anche in Australia il progressisimo e il femminismo (pure il liberalismo, talvolta) si mostrano compiacenti anche verso l’islam più retrivo, quello che punisce ogni naturale emancipazione femminile, e così si lasciano ai “politicamente scorretti” (o alle destre anche estreme) le battaglie anche più ineccepibili e che non “ridicolizzano” nulla, ma tendono a liberare le donne di ogni fede da orpelli che per tutta la vita le mortificano fisicamente, ne annullano l’identità, impediscono loro un contatto nella vita sociale. Non stiamo parlando di una diversità culturale come un’altra: il burqa impone la sottomissione della donna e la sua sostanziale scomparsa dalla società, magari la stessa società – nostra – che giudica imperdonabile mettere una coperta sulla gabbia di un uccellino. Non stiamo parlando neppure di una dinamica religiosa imprescindibile, visto che il burqa, come l’infibulazione, non è previsto dal Corano ed è legato solo a degenerazioni di poche comunità sciite. È per questo che in Francia il burqa è vietato al pari di tutti i simboli religiosi o politici nei luoghi di lavoro e negli uffici pubblici: dopodiché, se certe donne islamiche finissero segregate in casa, basterebbe procedere di conseguenza. Chi si sforzasse di imporre un burqa vietato, almeno qui in Occidente, finirebbe per cedere: per forza. Anche perché vietare il burqua è una questione di dignità ma anche di sicurezza: nessuno, da noi, si oppone ai vari hijab, al amira, shayla e chador, cioè altre coperture che lasciano il volto riconoscibile. Il burqa è un’altra cosa: è un’opprimente prigione ambulante che annulla ogni percezione di forma. Un fantasma. Eppure, su questo, una legge inequivoca manca anche da noi, non solo in Australia. La legge italiana (e i vari Tar, il Consiglio di Stato, varie sentenze della magistratura) si sono sempre inventate che in un ospedale, per esempio, è vietato entrare con un casco integrale in testa, però si può entrare con un burqa: un’assurdità su cui convergono tutti o quasi, sinistra compresa, ma siccome la battaglia è di destra non si vuole regalarla all’avversario. E così, sottotraccia, e sotto il burqa, continua una battaglia che non è contro un antico medioevo: il medioevo è oggi.