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 2017  agosto 17 Giovedì calendario

La forza dell’euro, le scelte Bce e quei timori per le esportazioni

Tutto sembrava pronto perché Mario Draghi avviasse l’operazione di graduale rientro esattamente da dov’era partito. Tre anni fa a Jackson Hole, Wyoming, il presidente della Banca centrale europea era stato il protagonista alla conferenza annuale della Fed di Kansas City, grazie a poche righe aggiunte all’ultimo momento al testo del suo discorso. Con quelle Draghi aveva preparato il lancio del quantitative easing all’europea, che sarebbe partito sette mesi dopo e da allora avrebbe portato la Bce a comprare sul mercato titoli per quasi duemila miliardi di euro.
Da quell’agosto del 2014 Draghi non è più tornato a Jackson Hole, ma ha previsto di farlo quest’anno forse anche perché aveva un messaggio da portare: la scommessa della Bce ha dato i suoi frutti. La minaccia di un avvitamento corrosivo dei prezzi non grava più sulla zona euro, l’inflazione resta bassa ma viaggia stabilmente sopra l’1%, quella stimata al netto di beni come il petrolio o il tabacco non era così alta dal 2013. Le ultime conferme della ripresa in Europa e in Italia dicono che il quantitative easing della Bce ha portato gli effetti che aveva già prodotto prima negli Stati Uniti e in Gran Bretagna: aiuta l’economia a crescere, quando gli interventi della Banca centrale sono decisi e prolungati.
Draghi era dunque pronto ad andare a Jackson Hole per far capire che una nuova, progressiva svolta era possibile. Il tempo di preparare il terreno per un graduale smantellamento del programma di acquisti della Bce a partire da dicembre prossimo è quasi arrivato. Eppure l’operazione, da sempre delicata, sarà probabilmente ancora più difficile di come Draghi stesso si augurasse anche solo in giugno ed è ormai molto probabile che a Jackson Hole il presidente della Bce parta con grande cautela. La baita sulle montagne del Wyoming potrebbe non essere il luogo ideale per un annuncio.
Negli ultimi mesi si è infatti inserito a forza nell’equazione della Banca centrale europea un nuovo fattore con cui i mercati non avevano fatto i conti: Donald Trump; per l’esattezza, l’apparente incapacità del presidente americano di attuare il proprio programma di tagli di spesa, tagli alle tasse e rilancio degli investimenti in infrastrutture. I mercati hanno iniziato a perdere fiducia nell’efficacia della Casa Bianca e lo si vede nei prezzi del dollaro. Dopo l’elezione di Trump, le attese di un’accelerazione dell’economia americana e di un aumento dei tassi della Federal Reserve avevano portato molti investimenti sul dollaro e l’euro aveva toccato un minimo di 1,03 sul biglietto verde. Poi il crollo della credibilità di Trump ha contribuito a una caduta del dollaro. Visto dall’Europa, il risultato è evidente: la rivalutazione dell’euro sul biglietto verde è stata del 13% dalla fine del dicembre scorso; l’apprezzamento della valuta europea in media sulle principali economie mondiali è stato del 6,5% da febbraio.
Oggi proprio la forza della moneta è diventata la principale incognita sul futuro della ripresa di un’area tradizionalmente trainata dall’export e dall’industria manifatturiera. Non è un caso se qualche segno di questo disagio si inizi a percepire: nell’ultimo mese la produzione industriale è calata sia in Germania che in Francia, mentre il contributo dell’export alla crescita italiana nell’ultimo trimestre è stato leggermente negativo.
Questo quadro rende delicata l’operazione che aspetta Mario Draghi. Quando toccò alla Federal Reserve preparare la fine graduale degli interventi, all’inizio i mercati globali reagirono malissimo: la tempesta sui titoli a reddito fisso nei mercati emergenti fu breve, ma molto intensa. Per la Bce il disagio per la ritirata del programma di interventi rischia di manifestarsi in un’impennata ulteriore dell’euro, che potrebbe ostacolare seriamente l’industria esportatrice e la ripresa. Per questo Draghi si muoverà con ancora più cautela di quanto avesse previsto. E magari segnalerà che non è indifferente al livello del tasso di cambio.