la Repubblica, 15 agosto 2017
Così le vietnamite difendono il culto della pelle chiara. L’ossessione dell’Estremo Oriente per il pallore
Le ragazze vietnamite, più delle thailandesi, sono celebri in Asia per il pallore diafano della carnagione, il più esotico da questo punto di osservazione tra i pigmenti delle mille etnie dell’est. Per preservare il dono di natura celebrato nelle fiabe delle “principesse del chiaro di luna” si sottopongono al duro sacrificio di coprirsi l’intero corpo e il viso ogni volta che escono sotto al sole implacabile dei tropici. L’immagine delle contadine con il largo cappello conico dell’iconografia viet rende evidente che da tempo immemorabile nessuno qui ama farsi cuocere l’epidermide. In giro attorno alle città e campagne viet si vedono sempre più giovani e anche anziane con gli abiti su modello occidentale col tocco eccentrico di chi sembra indossare dei pigiami. Grandi occhiali da sole spesso completano una composizione di colori e accostamenti che farebbero voltare lo sguardo a chiunque in Occidente ma qui sono normali, come è ormai parte del completo la mascherina per proteggersi non solo dai raggi cocenti, ma anche dall’inquinamento di auto e moto. In Paesi come Corea del Sud e Giappone indossarla è una precauzione diventata moda dopo la rivelazione del buco nell’ozono, ed è diventata simbolo di comunanza metropolitana, specialmente tra i giovani che usano le più svariate forme di protezione per naso e bocca, spesso dagli effetti volutamente esilaranti. Nel caso del Vietnam il colore della pelle ha anche e soprattutto a che fare con pregiudizi antichi verso le etnie di minoranza che si sono opposte nei millenni al dominio della maggioranza viet o kinh, i “bianchi” dell’Asia. I Montagnard, etnia scura degli altipiani, si dicono per esempio perseguitati in Vietnam e gruppi di profughi vengono regolarmente sballottati di qua e di là del confine con la Cambogia. Qui dove sorge il sole prima che altrove nel pianeta non c’è la stessa venerazione per l’astro che trovi in Africa, anche se ha importanza astrologica. Chi ci vive sotto senza protezione non si cura dell’aspetto o vi è forzatamente esposto, cosìcché un uomo o una donna dalle campagne si nota subito a passeggio per le strade di Bangkok o di Hanoi e Saigon, lo stesso a Pechino. Molte minoranze migrate anticamente dalla Cina e oggi disseminate in Thailandia, Laos, Birmania mostrano i segni delle loro razze e tra questi il principale è il colore. Si chiamano Lisu, Akha, Mong, e nella gran parte dei casi sono residenti di serie B nei Paesi di accoglienza. Da questo presupposto nasce anche lo sfruttamento e il traffico di esseri umani: nei bordelli la bellezza “di colore” ha un prezzo più basso alla fonte per le famiglie povere che vendono le figlie nei villaggi, ed è più alto tra i clienti giapponesi, cinesi e taiwanesi in cerca di esotico. Proprio per il colore della pelle le donne vietnamite sono molto ricercate tra gli scapoli cinesi che con la politica del figlio unico si sono ritrovati senza mogli. Vanno a comprarsele nei villaggi dell’Ha Giang e delle altre province lungo il confine povero. Ci sono agenzie specializzate per il mercato delle moglie dal sud est con in testa alle preferenze la caratteristica cromatica. La pigmentazione scatena istintivamente tra chi conosce le differenze somatiche delle varie etnie un fenomeno di identificazione dell’aspetto con una certa categoria umana, tipico del rapporto tra caste alte e basse dell’India, laddove i dalit, o “intoccabili”, sono immancabilmente scuri, come i dravidiani che abitavano originariamente il Continente e ora risiedono al Sud. Anche tra le pelli scure degli abitanti di Madras e Trivadrum ci sono gradazioni che segnalano la purezza o meno di un gene. Molti dimenticano che un fenomeno analogo successe con le prime migrazioni di meridionali nel nord Italia. Per questo le donne viet si coprono integrali, come fanno anche molte thai anche se usano soprattutto – come le ragazze indiane – tonnellate di creme sbiancanti che in Occidente molti medici sconsiglierebbero e qui vanno via più dell’aspirina. Nel Myanmar da tempo immemorabile le birmane usano la pasta di una pianta chiamata tanaka per tenere la pelle fresca e chiara, e da quando è arrivato il turismo di massa i loro ritratti con le strisce bianche sulle guance e sulla fronte sono diventati virali. Ma anche nei negozi di Rangoon trovi adesso interi scaffali di “Pure pearl”, pura perla, o “Magia bianca”. Un nome un programma.