La Stampa, 15 agosto 2017
Sicilia. Intervista al responsabile del faro di Cozzo Spadaro: «Trentasette anni sulle torri. Non mi sono mai sentito solo»
«Un faro che diventa albergo di lusso? Non riesco proprio a immaginarlo». Già, per lui, Giovanni Lupo, il faro è la luce accesa di notte per trentaquattro miglia, tre lampi ogni 15 secondi, gli strumenti di controllo, la barca per controllare i “segnalamenti” delle piccole isole vicine. Il faro è fatica, solitudine, è sale. Lui, 63 anni, sui fari da 37, è il responsabile del faro di Cozzo Spadaro sulla punta più meridionale della Sicilia, a Portopalo di Capo Passero, costruito nel 1864, uno dei pochi rimasti attivi tra i duecento di tutto il Paese. Una torre di 36 metri, una scala elicoidale di 165 gradini.
Il mondo cambia, lei è uno dei pochi testimoni di quel che è stato…
«Rifarei tutto. Sono nato qui, a Portopalo, e da bambino guardavo le spade di luce in cielo. Sognavo che un tempo avrei abitato qui. Poi ho visto uno sceneggiato, “I racconti del faro”, ed è stato amore assoluto. Per realizzare il mio sogno mi sono arruolato in Marina, dopo sette anni ho fatto il concorso per impiegato civile, sono andato a lavorare al faro di Ancona, a quello di Ustica. Poi finalmente sono tornato qui, da dove tutto è cominciato».
La gente immagina che il guardiano del faro stia in solitudine. Invece lei ci vive con moglie e figlia…
«Mia figlia di 25 anni, è vissuta qui sin dalla nascita. Ed è tornata, dopo essersi laureata in Scienze motorie. Questo faro non è lontano dal paese. Quando ci sono arrivato c’erano altri due addetti con le loro famiglie, ora c’è soltanto un mio collaboratore. Non sono solo. Ma non immagini che sia sempre stata così la mia vita. A Ustica al faro si arrivava solo con una mulattiera, quattro chilometri dal centro abitato, quando c’era la tempesta bisognava a rifugiarsi nelle grotte vicine, perché il faro non era schermato dai fulmini. Per sei mesi ho avuto con me un collega che scappò subito dopo. Mi disse: qui divento pazzo. Eppure mia moglie non mi abbandonò».
L’esperienza più estrema?
«Proprio a Ustica, su quella torre cento metri a strapiombo sulla scogliera, vento a centocinquanta chilometri orari. A causa di un fulmine il faro si spense, dovetti uscire in mezzo alla tempesta per accendere quello di riserva: mia moglie piangeva dalla paura. Ci riuscii ma capii anche perché quel faro lo chiamano “L’omo morto”».
Eppure…
«Eppure potrei andare in pensione tra qualche mese ma ho chiesto di restare al faro fin quando sarà possibile. La mia vita è qui».