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 2017  agosto 15 Martedì calendario

Giorgio Armani si racconta in una lunga intervista: «La solitudine? Forse è quello che ci accomuna tutti. Se avessi 30 anni farei il regista»

«La solitudine? È una sensazione che appare e scompare. A volte ti attende sulla porta di casa, a volte si allontana per giorni e ritorna quando sei tra amici. Mi capita di pensare che l’ho costruita e alimentata proprio io, anteponendo a tutti il mio lavoro, gli impegni che non finiscono mai e non permettono un attimo di sosta. Una specie di corsa a ostacoli che mi è stata rimproverata anche dalle persone che più ho amato. Ma forse la solitudine è qualcosa che accomuna tutti». È nella sua Pantelleria, rifugio di successi e pensieri, che Giorgio Armani si racconta, oggi. Con la fermezza che l’ha portato a ottenere tutto quello che il mondo intero gli riconosce e un’inaspettata delicatezza di emozioni che pochi, pochissimi, conoscono.
Si dice che a settembre Giorgio Armani scatenerà l’inferno... Ce la racconta la sua (nuova) rivoluzione?
«Non esageriamo. Non sono un gladiatore e nell’arena non mi aspettano tigri. Almeno, non ancora. Diciamo che vado a Londra a presentare non soltanto la nuova collezione di Emporio, ma l’Emporio che cambia, dopo trentasei anni dalla nascita del marchio. E ci saranno tutti gli elementi per quella grande occasione, a cominciare dalla musica».
Preferisce pioniere, rivoluzionario o gladiatore?
«Mi sono sempre ritenuto un rivoluzionario che non ha voglia di accettare il sistema e sa trasformare le regole in una scelta di libertà. Perché non amo l’enfasi, le forzature e i facili entusiasmi».
Armani e la rabbia?
«Non mi piace la parola, ma conosco il sentimento che la scatena. Non tollero la faciloneria, quando la stampa che è sempre in cerca di novità grida al miracolo e alla meraviglia, ad esempio. Così ogni volta bisogna rincarare la dose, e stupire a tutti i costi. Questo a volte m’irrita profondamente».
Perché ha sentito ora l’esigenza di cambiare così la sua organizzazione?
«È un momento in cui il mercato globale, sempre più competitivo, continua a cambiare. Io non mi sono limitato a prendere atto di ciò che sta succedendo, ma sono intervenuto semplificando i brand. Quest’operazione non soltanto li rafforza chiarendone il carattere, ma li precisa concentrando l’attenzione su Giorgio Armani, Emporio Armani e A/X Armani Exchange».
Emporio quando nacque stava per democrazia, luogo per tutti. È ancora così? Anche nel mondo?
«Emporio non ha mai tradito questa sua natura. Mi rendo conto che forse l’espressione tradire può sembrare forte, ma è quello che sarebbe successo se, anziché evolversi, fosse cambiato. Lo conferma per esempio l’Emporio Armani Caffè, un luogo d’incontro e di ritrovo, dove si mescolano le età e i ceti. Ora, con la riorganizzazione in atto, Emporio rafforza il suo messaggio, proponendosi come un “contenitore” di soluzioni e d’idee, rivolgendosi a un pubblico ancora più ampio e trasversale».
Era il ‘98 quando disse che a lei non interessava vestire i ricchi. Quasi vent’anni fa e all’epoca della moda a qualsiasi costo. La pensa ancora così?
«Non mi ricordo in quale occasione ho detto questa frase, ma la penso così tuttora. Non ho mai inteso la mia moda come riservata esclusivamente ai ricchi, e non sarebbe stato possibile visto che già nel 1981 il mio obiettivo era di proporre uno stile innovativo e completamente diverso rispetto a quanto vedevo intorno a me. Sicuramente negli anni Novanta, quando ha cominciato a farsi strada la parola lusso, ho sentito questa tendenza come una limitazione, ma anche come una sfida. Il mondo non si esaurisce nel lusso o nella moda democratica, ma vive in un equilibrio di questi elementi».
Lo sport come nuovo linguaggio universale? Lei ci crede da sempre: dal successo di EA7 all’impegno con il basket a una pratica quotidiana. Sempre convinto?
«Sempre di più, perché penso che possa essere una scuola di volontà e disciplina personale. Favorisce lo spirito di squadra, il senso della comunità che è alla base della vita civile. Mens sana in corpore sano: e quando il corpo è allenato, tonico, ben strutturato è ancora meglio».
Il senso di Giorgio Armani per la moda.
«Trasmettere sensualità senza allusioni troppo esplicite, dar risalto a una fisicità che però resta un fatto privato, dipingere le sensazioni con i colori ma senza essere sentimentale, modulare e rispettare un limite non scritto ma codificato, fermandosi un momento prima. Per lasciare margine all’immaginazione».
Cosa ne pensa del sistema moda di oggi?
«Rappresenta la grande confusione del momento con la gente che s’infiamma sempre di più per fenomeni sempre più passeggeri osannati all’inverosimile da Internet. Mentre ci sono marchi silenziosi, come Hermès, che non devono per forza parlare di sé incessantemente e con tutti e – forse anche per questo – hanno un successo sempre maggiore».
La definizione di elegante (per uomo, donna, gender) va aggiornata?
«Direi di no. Eleganza significa saper scegliere e questo si fa, in un certo senso, quasi automaticamente».
Le nuove generazioni viste da Giorgio Armani come sembrano? C’è qualche giovane che vorrebbe conoscere? Come li osserva?
«I giovani li osservo con la curiosità e l’attenzione di sempre, anche se a volte mi sembrano arrivati da un altro spazio e da un altro mondo. Ammiro tutti i giovani che credono nelle proprie scelte al di là dell’attività che hanno scelto, secondo la propria personalità, come ho fatto io. È quello che io suggerisco sia ai giovani che mi stanno in fianco nel lavoro sia a quelli che non conosco e che affettuosamente mi chiedono un consiglio».
Armani e la politica?
«M’interessa perché cerca di modellare le nostre vite. La seguo a distanza per mantenere un punto di vista equilibrato ma consapevole. Sono nato e ho passato la mia infanzia negli anni della dittatura e della guerra. Ho visto cambiare il mio Paese che ha scelto, a prezzo di lacrime e sangue, la democrazia e di questa scelta sono molto orgoglioso».
Se oggi Giorgio Armani avesse 30 anni cosa farebbe?
«Forse il regista, professione che mi ha sempre sedotto e che a volte immagino di esercitare preparando le mie sfilate. Suggerire un mondo e un ambiente, è creatività totale».
Un medico che divenne stilista: rimpianti? È vero che il suo sogno era diventare un hippy? Anche se Armani con il capello lungo...
«Non ho rimpianti e il mio sogno era viaggiare, come poi ho fatto. Senza capelli lunghi, che ho sempre pensato non mi donassero per niente».
Armani e l’amore?
«È un sentimento dalle infinite sfumature, sto ancora imparando ad apprezzarle tutte».
È un’impressione, ma ultimamente ha fatto pace con tante cose?
«È un’osservazione sottile, ma sì, è così. Ho sempre cercato di modernizzare la moda, adeguandola al modo in cui le persone vogliono vivere. Non è facile perché talvolta la realtà si muove così rapidamente che nessuno sa davvero che cosa sta succedendo e per di più sembra che le persone desiderino essere continuamente sbalordite, sempre alla ricerca di mode esplosive. Ma le esplosioni non durano a lungo e dopo restano soltanto le ceneri. Io ho inventato un modo di esprimere eleganza provocando una rivoluzione iniziale e poi suggerendo tanti piccoli spostamenti, lavorando intorno al nucleo centrale di quello che era e che è il mio stile. Quando ho chiarito a me stesso questo percorso, ho affrontato tutto con maggiore chiarezza».
Che cosa continua a darle fastidio?
«Il frastuono, l’esagerazione, le intemperanze modaiole. Mi annoiano e mi disturbano da sempre».
Si siederebbe a un tavolo con gli altri (da Prada a Dolce e Gabbana a Gucci) per cercare di fare qualcosa perché Milano non diventi periferia? Perché un po’ questo sta succedendo. Per contro Parigi cresce.
«Ma noi ci sediamo già intorno a un tavolo, anche se Dolce & Gabbana preferiscono muoversi in splendida solitudine. E non condivido l’idea che Milano sia la periferia di un impero dove la capitale è Parigi. Il ministero dello Sviluppo economico sta investendo risorse e contributi, ha investito nei saloni e nelle iniziative della moda e sostiene l’esportazione dimostrando coerenza e pragmatismo nelle scelte. Parigi è importante ma, me lo lasci dire, non mi sembra nel pieno del suo fulgore».
La Milano che Armani sognerebbe di vedere oggi? C’è qualcosa che vorrebbe fare di impossibile per questa città?
«Più verde, come forse diventerà quando le aree delle vecchie stazioni saranno trasformate in parchi. Quanto alle imprese impossibili, sarebbe una bella sfida sistemare – e stavolta almeno per una ventina d’anni – Piazza Castello».
Le piace questo mondo di «selfie» e «like»? Lei così schivo, poche interviste, poche comparsate tv, mai tentato di aprire Instagram?
«Non è un mio strumento di comunicazione. Penso che ognuno debba farsi conoscere attraverso gli strumenti che più gli assomigliano».
Lo sa che un suo collega (Karl Lagerfeld) mette sempre in rete la sua gatta? Lo farebbe lei con i suoi? Sono sempre i suoi compagni?
«I miei due gatti sono molto riservati. Il loro lato esibizionista lo riservano solo a me».
Vede per caso sul mercato un Giorgio Armani jr?
«Sinceramente, no. Anche perché tempi, obiettivi, mezzi attuali sono diversi dagli anni ‘70 in cui tutto cominciò».
Chi meglio di lei potrebbe rappresentare l’Italia nel mondo? Capo dello Stato con elezioni dirette, che ne dice?
«Ecco, non mi vedo Presidente della Repubblica anche se mi sento onorato del fatto che qualcuno possa pensare che io rappresenti l’Italia».
Cosa farà, oggi, giorno di Ferragosto?
«Ho cancellato Ferragosto dal programma delle mie festività. È un giorno molto triste che mi ricorda un evento angoscioso che mi accompagna ogni anno». Un dolore mai sopito: il 14 agosto di trentadue anni fa morì all’improvviso il suo compagno di vita e di lavoro, Sergio Galeotti.