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 2017  agosto 13 Domenica calendario

John Fante era mio padre

Un viaggio in Colorado sulle tracce della famiglia di origini italiane L’autore di “Chiedi alla polvere” nel racconto on the road del figlio Jim Che ricorda: “Morì felice, sapendo di aver lasciato il segno” Era all’inizio dell’estate 1963. John F. Kennedy era presidente degli Stati Uniti, Martin Luther King stava diventando il portavoce dei diritti civili, e John Fante era inquieto. Suo figlio maggiore, Nick, conduceva una vita pericolosa nei bassifondi di Los Angeles. Suo figlio Dan era scappato a New York e non dava notizie da mesi. Mia sorella Vickie aveva un’intensa vita sociale ed era raramente a casa. Io invece avevo 12 anni, nessuna vita sociale e stavo spesso a casa. Una mattina mi alzai e mi sedetti nella sala da pranzo con l’inserto sportivo del Los Angeles Times. Mio padre era a tavola che stava finendo di fare colazione. «Jimmy, ti andrebbe oggi di venire con me nel Colorado?» «Certo, papà, ma adesso?» «Sì, prepara le tue cose. Partiamo tra qualche minuto». Sulla strada per la stazione ferroviaria mio padre mi disse: «Faremo una visita alle sorelle di tua nonna. Vivono a Denver in una casa di mattoni, come quelle che costruiva tuo nonno, e incontreremo anche zia Peppina, la sorella di tuo nonno di Torricella. Abita a Boulder». Ebbe così inizio un viaggio memorabile. Sebbene avessi dodici anni, sentivo che stavo conoscendo realmente mio padre solo in quel momento. Non gli era congeniale il classico ruolo di genitore, che dispensa consigli e giudizi. Ciò di cui lui aveva bisogno era di un amico. E questo a me andava bene. Quindi, parlammo di baseball e boxe, dell’essere italiano, di politica, di buoni libri e bravi scrittori, e della sua famiglia. Provava molto affetto per suo padre, sua madre, i suoi due fratelli e sua sorella. Aveva però ricordi molto dolorosi sulla sua infanzia povera e disagiata nel Colorado. Una cosa mi colpì in modo particolare di quel viaggio. Fu l’ammirazione di mio padre per il coraggio di un uomo che incontrammo in stazione a cui mancavano le gambe. Si muoveva su una piccola piattaforma di legno con due racchette da sci tagliate. Correva qua e là, da un capo all’altro delle file dei passeggeri, contandoli e assicurandosi che i documenti di ciascuno fossero in ordine. Era positivo, felice e si divertiva. Ciò commosse profondamente mio padre. Eravamo lì a guardarlo mentre lui esercitava con gioia le sue funzioni. All’epoca non potevamo immaginare che papà avrebbe un giorno perso le sue gambe a causa del diabete e che avrebbe dimostrato lo stesso coraggio e positività. La visita a Denver e a Boulder si svolse senza grosse sorprese. Le due sorelle di mia nonna vivevano insieme a Denver. Una di loro aveva perso suo figlio Mario in un incidente assurdo quando aveva undici o dodici anni. Quando mi vide pianse. Papà mi disse che era perché gli somigliavo molto. Andammo successivamente a Boulder da zia Peppina. Papà bussò energicamente alla porta. Apparve una piccola donna esile dai lineamenti marcati e con occhi neri pungenti che ci scrutavano con diffidenza. «Johnny, sei tu?». «Sì, zia, sono io, e questo è mio figlio Jimmy». «Perché sei qui Johnny?» «Solo per salutarti, zia, non vogliamo nient’altro». Emerse lentamente sul portico. Parlarono brevemente e a bassa voce per non farsi sentire da me, e alla fine entrammo in casa per una breve visita. Sebbene Peppina avesse dimostrato diffidenza, colsi l’amore che provava per il nipote. Papà mi spiegò che aveva avuto una vita difficile che le aveva tolto quasi del tutto il senso dell’umorismo e la voglia di conversare. Mio padre mi portò poi in giro per Boulder e Denver, facendomi vedere i posti che conosceva, ma non quelli in cui aveva vissuto. Andava bene anche così. Avrà avuto le sue ragioni. Parlammo di tutto e di niente, ed entrambi realizzammo che stavamo bene insieme. Questo sentimento rimase intatto per sempre. Durante la mia adolescenza, quando feci il militare, l’università, e in generale nei momenti difficili della mia vita, era lì, accanto a me, il mio miglior amico. Anche quando la sua salute e carriera iniziarono ad avere un declino parlavamo, persino nei suoi momenti peggiori. Il suo coraggio e positività non l’abbandonarono mai. Credeva in Dio. Una delle cose che avevo capito di mio padre è che sapeva di essere un grande scrittore. Lo sapeva da sempre. Qualsiasi rifiuto o delusione potesse ricevere, li prendeva per quello che erano. Non aveva dubbi sulle proprie capacità. È sempre stato così. Per cui, quando il suo lavoro fu riscoperto qualche anno prima di morire per lui fu una grande soddisfazione. Un senso di frustrazione lo aveva sempre accompagnato per la mancanza di riconoscimento delle sue capacità e per il suo insuccesso, ma alla fine emerse tutto. Morì sapendo che aveva lasciato un segno. Ci stava lasciando lentamente e con coraggio, ma reagiva sorridendo ad ogni mio racconto sulle novità sportive che gli facevo mentre, accanto a lui, gli tenevo la mano. Il suo contributo di scrittore rimarrà per sempre, così come mi accompagnerà in ogni momento il suo amore e coraggio. TRADUZIONE GIOVANNA DI LELLO