la Repubblica, 12 agosto 2017
«Pokémon Go, che noia quei mostri». Il gioco da primato è già nell’oblio
Povero Bulbasaur, ormai non se lo fila più nessuno. E Pikachu è rimasto tutto solo al Colosseo. Inconsolabile Charizard, adesso che agli Uffizi (climatizzatori permettendo) la gente torna a cercare Botticelli e non più lui. Così passa la gloria dei Pokémon, effimeri non solo sui display dei telefonini: l’anno scorso erano il fenomeno della realtà aumentata, mezzo miliardo di persone li inseguivano ovunque, per strada, nei musei, persino nelle chiese e negli ospedali, oggi invece la realtà “reale” li ha appesantiti con un destino molto umano e assai poco virtuale: invecchiare, non essere più amati o, ancora peggio, dimenticati. «Sono noiosi, il gioco è monotono, quella app l’ho disinstallata». Luca Mandelli, ludico studente romano di ingegneria parla a nome dei tanti delusi da Pokémon Go. «L’anno scorso erano una moda, l’avevamo tutti ma ci siamo stancati presto. Un gioco senza evoluzione, micidiale per la batteria del cellulare, pieno di buchi. Alla fine era come raccogliere figurine: quando hai completato l’album, lo metti nel cassetto». Eppure Pokémon Go è stata l’applicazione più scaricata di tutti i tempi, quella che ha raddoppiato il valore in Borsa di Nintendo generando 400 milioni di dollari al mese di ricavi e facendo guadagnare 12 miliardi in due settimane. Hillary Clinton ne parlò in un comizio elettorale (a occhio, non le servì molto) e tra le parole più cercate su Google dagli italiani Pokémon Go riuscì a scalzare Olimpiadi, Europei, Elezioni Usa e terremoto. Esattamente un anno fa non c’era angolo di mondo in cui qualcuno non puntasse lo smartphone in apparenza nel vuoto, inquadrando invece un mostriciattolo colorato da catturare. Gli sviluppatori di programma li avevano piazzati ovunque, esagerando un poco: c’erano Pokémon da acchiappare persino ad Auschwitz. La Cina, l’Iran e l’Arabia Saudita arrivarono a proibirli, un giovane russo fu condannato per aver giocato nella cattedrale del Cristo Salvatore a Mosca. Senza contare gli incidenti a piedi, in bicicletta e in auto, tanto che i programmatori del giochino hanno dovuto bloccarlo quando si superano i trenta chilometri all’ora. Ma più del rischio poté la noia. Perché una partita che si ripete all’infinito, alla lunga provoca tedio. Pokémon Go è stata una moda estiva: finita la bella stagione è passata la voglia di cacciare creaturine mutanti, anche perché nessuno muta (gusti, abitudini, applicazioni) più di un giocatore. Di effimero si vive e si muore. Lo dicono i numeri, pure loro per niente virtuali: Pokémon Go è precipitato al 64mo posto tra le app gratuite più scaricate, surclassato persino dalle mazze da golf, dal vecchio gioco di carte Uno e dall’immortale Fantacalcio. Va ancora peggio nella classifica delle app più redditizie dell’Apple Store: qui, il povero Pikachu è addirittura novantasettesimo. E se non fai guadagnare soldi sei finito, che tu sia di carne, ossa o pixel. Non che i Pokémon nascosti tra noi siano proprio scomparsi, è che non li cerca quasi più nessuno. Nel mondo, 15 milioni di giocatori in meno al mese. Questo ha confortato i maggiori investitori di Facebook. Snapchat, Twitter e Google, che l’anno scorso vedevano gli utenti allontanarsi pericolosamente dai loro social. L’emorragia può dirsi conclusa. A poco sono servite le campagne pubblicitarie dei supermercati che invitavano a catturare Kadabra e Mew tra gli scaffali dei deodoranti, e ben scarso successo hanno i manuali con tutti i trucchi svelati: i 500 milioni di download resteranno un formidabile, irraggiungibile ricordo. Anche se Pokémon Go continua a esercitare il suo fascino sui fedelissimi unendo virtuale e reale, tasti da pigiare e geografia. Nessun videogioco ha mai fatto alzare nessuno dal divano, mentre con Pokémon Go sarebbero stati percorsi a piedi quattro miliardi e mezzo di chilometri, più che con tutte le altre app messe insieme. L’inventore di Pokémon Go, l’americano John Hanke che fondò la Niantic, si vanta che centinaia di sindaci gli abbiano chiesto di aiutarli a sfruttare meglio lo spazio pubblico, perché cercando l’irreale si arriva a conoscere il mondo così com’è fatto, scoprendo magari che la vera magia è fuori dallo schermo. Il prossimo passo, secondo Hanke, saranno gli ologrammi negli occhiali o forse un giorno, chissà, direttamente negli occhi e nel cervello. Essendo progettisti di combattimenti, gli inventori del giochino un po’ in disgrazia non si arrendono. Per rivitalizzare l’attenzione sono appena arrivati i Pokémon Leggendari, rarità da cercare e catturare entro un tempo stabilito: come Zapdos, “Uccello Leggendario” che scomparirà il 14 agosto, dopodomani. Per chi vuole prendersi un po’ più di tempo ci sono Kangaskhan e Unown, i quali resisteranno fino al 21 agosto anche se la casa madre fa sapere che in Italia si potranno inseguire soltanto a Roma, Napoli e Milano. I più incalliti potranno usare il Pokémon Go Plus, braccialetto collegato allo smatphone che avverte quando c’è un Pokémon nelle vicinanze. Perché il vero business di questi aggeggi sono gli accessori, cioè i mille oggetti a pagamento che rendono più veloce la caccia e consistente il bottino. Anche se poi, con il carniere pieno di Pokémon non ci si fa nulla, resta solo la soddisfazione come per gli alpinisti che violano le vette estreme. Oggi comunque i ragazzi sembrano tornare al tradizionale. «Giochiamo sempre di più con le carte collezionabili, e tra le app più scaricate c’è Clash Royale», spiega Luca. Cioè una battaglia strategica per abbattere torri tra palle di fuoco, dardi e asce, però sfidando gli altri in rete, i “multi giocatori” che chiedono divertimento, varietà e rapidità. «È essenziale che una partita non duri più di qualche minuto, come succede anche con Ruzzle, mentre i Pokémon Go non finivano mai». Del resto, con i giochi estivi è così da sempre, un po’ come per gli amori da l’ombrellone: belli, però non durano. Qualcuno avrà preistorica memoria delle micidiali palline “Clic Clac” che massacravano orecchie e polsi, della grande palla di gomma con le maniglie per saltare, di quella specie di ovale di plastica che due giocatori si lanciavano con un filo agganciato a maniglie (per la cronaca, si chiamava Going). Tutto vissuto all’ombra di qualche estate e poi perduto. Ma si può catturare ancora: non col cellulare, semplicemente ricordando.