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 2017  agosto 10 Giovedì calendario

Renzi-Minniti, dietro al caso ong la corsa alla premiership 2018

Martedì sera, nel bel mezzo della campagna toscana. Squilla il cellulare di Minniti, in viaggio verso la festa dell’Unità di Certaldo. È Matteo Renzi. «Marco, superiamo questa pagina. Non c’è alcun problema, remiamo tutti nella stessa direzione». Lima, il segretario dem. Si mostra comprensivo. Invita il ministro a mettere da parte ogni incomprensione con Graziano Delrio. Minniti è spiazzato. Chiude la chiamata e confida agli amici: «C’è qualcosa che non va, non capisco fino in fondo il modo in cui Matteo ha gestito questa partita». Non capisce, soprattutto, perché l’ex premier sia rimasto silente per tre giorni, nel cuore della bufera. E perché abbia poi deciso di mostrarsi nei panni del mediatore, abbracciando allo stesso tempo le tesi di Delrio. Qualcosa non torna, secondo Minniti. Ne è nato un dubbio, che suona così: «È il segnale che è iniziata la partita del 2018 e che qualcuno mi considera come un problema. Ma io – assicura – faccio il ministro dell’Interno, proiettato anima e corpo alla questione dei migranti». Quanti sospetti, in questo agosto di vigilia elettorale. Messi allo specchio, i timori di Minniti assomigliano a quelli dell’ex premier. Da tempo Renzi si sente sotto assedio. Scruta con scetticismo ogni mossa di Dario Franceschini e Andrea Orlando. E teme ogni potenziale candidato alla guida del prossimo governo, quindi anche Minniti. Prima di dedicarsi alle vacanze, il leader ha consegnato questi dubbi ai suoi. «Trovo incredibile che nel Pd ci sia chi pensa solo a come fare fuori Matteo Renzi – il senso del ragionamento, riferiscono -Roba di Palazzo, senza un voto alle spalle. Quanti ne vedo in gara per diventare il “nuovo Gentiloni”...». Ecco il punto, insomma: la battaglia per la prossima guida del governo. Non poteva che finire così, con una riforma elettorale inchiodata ai veti parlamentari e un proporzionale che imporrà quasi certamente un premier di larghe intese. Sui migranti, a dire il vero, il dibattito è stato reale. E davvero Renzi condivideva i ragionamenti di Delrio e alcune preoccupazioni di Minniti. La verità, però, è che con il passare delle ore la sfida è diventata prova di forza politica. A quel punto il leader è uscito allo scoperto, abbracciando pubblicamente Delrio. E così hanno fatto renziani ortodossi come Boschi e Madia. Non è un caso che l’allarme sia scattato su Minniti. Da tempo i renziani mettono in fila alcuni dettagli. Uno, il più “allarmante”, passa dalla rete di relazioni trasversali del ministro. Come esempio citano l’antico feeling tra il titolare del Viminale e Sergio Mattarella: sottosegretario alla Presidenza del consiglio il primo con il secondo vicepremier, poi sottosegretario alla Difesa con Mattarella ministro. Senza dimenticare quel rapporto solido con l’opposizione berlusconiana. Cementato anche di recente sulla missione navale in Libia, grazie alla linea diretta con Gianni Letta e Paolo Romani. La riserva della Repubblica ideale, secondo i renziani. Quindi la riserva della Repubblica più pericolosa. È un braccio di ferro, quello che si combatte intorno al Nazareno. Renzi sa bene che senza una clamorosa affermazione elettorale, difficilmente tornerà a Palazzo Chigi. Non esclude un passo indietro nella corsa alla premiership, dopo il voto. Ma su un punto non transige: «Nel caso, decido io. Non altri con una manovra di Palazzo». Bisogna arrivare primi alle elezioni, tra l’altro. Che è poi il vero nodo che tormentava Matteo Orfini qualche giorno fa in Transatlantico, a colloquio con alcuni colleghi meridionali: «Ditemi tutto, ma è Renzi quello che porta i voti. Sapete però cosa mi preoccupa? Che nel partito c’è chi pensa a come metterlo da parte per andare a Palazzo Chigi, senza capire che così sfasciamo tutto e perdiamo le elezioni. Altro che premier...». Conteranno soprattutto i tempi, in questa sfida. «Io punto sulle urne a febbraio», profetizzava l’altro giorno alla Camera il capogruppo dem Ettore Rosato. Il segretario dem non vuole assolutamente trascinarsi fino alla primavera inoltrata. Il tempo sarebbe benzina nei motori dei suoi avversari, che attendono le regionali siciliane per logorarlo ancora e lanciare l’assalto al Nazareno. Il Colle, invece, preferirebbe non forzare le tappe, magari arrivare fino ad aprile. E anche Gentiloni ha fatto già sapere che tutto è possibile, «massima disponibilità a ragionare su ogni scenario», ma certo ad aprile si aggancerebbe meglio la ripresa. Ecco la sfida dei prossimi mesi.