la Repubblica, 9 agosto 2017
Il grande caos delle palestre una su tre è fuorilegge. Trainer fai-da-te, è allarme
Al numero verde dell’accademia personal trainer risponde un hotel. A quello della Federazione italiana aerobica e fitness acchiappa il telefono un signore che passava lì per caso e alla richiesta di informazioni dice (e un po’ di ragione ce l’ha) «Provi a mandare un’email, abbiamo diritto alle ferie pure noi». Alcune palestre affiliate Coni rispondono piccate «Certo!» alla domanda se c’è il defibrillatore, ma poi tergiversano se si chiede di indicare chi lo sa usare e dove si trova. E non si pensi di andare in giro ad accertare se, come prevede la normativa Coni per gli impianti sportivi, le pareti sono «realizzate in materiali resistenti e facilmente pulibili» ed eventuali sporgenze sono «adeguatamente segnalate e protette». Un dato è verificato: quando le autorità preposte eseguono i controlli su palestre, centri fitness e piscine, come accaduto a Milano lo scorso anno, rilevano irregolarità in un caso su tre, con gravi violazioni sulle norme per i lavoratori e i frequentatori. «Palestre, centri estetici e laboratori di yoga sono un settore che storicamente è stato poco interessato dai controlli» ha dichiarato Susanna Cantoni, per sei anni a capo del dipartimento prevenzione dell’Agenzia di tutela della salute di Milano, a Repubblica lo scorso marzo. Le stesse associazioni di categoria ammettono che per gli utenti è difficile orientarsi in un un’offerta variegata, con tanti professionisti seri ma anche tanta approssimazione, nell’allestimento degli spazi e nella scelta degli istruttori. Sotto l’etichetta di “settore fitness”, infatti, finisce un po’ di tutto. Manca una legge nazionale che disciplini la figura dell’istruttore o del personal trainer, a cui suppliscono alcune leggi regionali e da tempo le associazioni di categoria chiedono la creazione di un albo. Stesso discorso vale per gli spazi dove si fanno corsi di aerobica, pilates o nuoto. Le norme Coni per l’impiantistica sportiva prevedono per gli «impianti per il fitness» (che si specifica è «un insieme di attività motorie finalizzate al raggiungimento di una superiore capacità fisiologica o funzionale e al mantenimento del benessere fisico») requisiti simili a quelli degli impianti sportivi per attività agonistiche, ma con alcune deroghe. Tuttavia proprio quanto accaduto a Mattia Dell’Aglio dimostra che spesso basta uno spazio ad uso privato con alcune macchine per i pesi per attirare chi vuole allenarsi. Sarà l’inchiesta ad accertare se l’atleta modenese ha compiuto un’imprudenza a stare lì da solo di domenica, in un locale senza area condizionata, oppure se ci sono responsabilità da parte di chi quella struttura gestiva e di fatto l’ha aperta al pubblico senza un controllo. Di sicuro, se ci fosse stato un defibrillatore e qualcuno che poteva azionarlo, il giovane avrebbe avuto il 50 per cento di possibilità in più di salvarsi. E questa dei defibrillatori è un’altra tessera importante per comporre il mosaico sconcertante del mondo del fitness e delle palestre. Lo scorso 26 giugno è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale la norma che impone anche alle società dilettantistiche di dotarsi di defibrillatori, ma la legge lascia ancora spazi di manovra per le «attività non agonistiche», cioè quelle svolte nei centri fitness. Di fatto sta alla coscienza dei gestori dotarsi di una macchina salvavita e formare le persone che possano utilizzarla in modo adeguato. Ma a fronte di un mercato in continua crescita, che in Italia conta circa 12mila palestre e un giro d’affari di circa 22 miliardi di euro, sono pochi gli imprenditori del fitness che decidono di spendere dagli 800 ai 1500 euro per comprare un defibrillatore.