La Stampa, 8 agosto 2017
Venezuela. La rivoluzione permanente sostenuta da nepotismo e militari
Raccontano che quando Nicolas Maduro incontra i nuovi ambasciatori inviati a Caracas, ripete spesso questa frase: «Noi siamo venuti qui per restare». Una sorta di avvertimento: il chavismo è una rivoluzione permanente, ha la missione di ristabilire la giustizia in tutta l’America Latina, e quindi non intende sottoporsi alle normali regole democratiche. Maduro ora sta cercando di trasformare questa profezia in realtà. Come lui la pensano la nomenclatura del regime e gli alti gradi militari, ma la gente che aveva votato Chavez giudicherà la convenienza di continuare la missione bolivariana-socialista sulla base dei risultati concreti, a partire da quello di mangiare ogni giorno.
L’universo madurista si divide in tre parti: nomenclatura, forze armate e popolo. Il regime è suddiviso tra i falchi, che considerano lo stesso presidente un debole, e i moderati. Tra i primi il leader è Diosdado Cabello, ex militare che nel 1992 aveva fatto il golpe fallito con Chavez, accusato dagli Usa di corruzione e narcotraffico. Per quelli come lui il chavismo aveva il diritto di imporsi con la forza, contro i soprusi della classe dirigente del passato che aveva fatto solo gli interessi dell’élite, e quindi ha il dovere di tenersi in vita con la forza. Questa linea è condivisa dai maduristi, con sfumature diverse. Ad esempio la presidentessa dell’assemblea costituente, Delcy Rodriguez, ha detto che il suo scopo è «fermare i fascisti che vogliono rovesciare il governo con le armi», però ha partecipato ai negoziati con l’ex premier spagnolo Zapatero.
La nomenclatura si sta trasformando in una gestione famigliare. La moglie di Maduro, Cilia Flores, è stata eletta nell’assemblea ed era candidata alla presidenza, se fosse andata ai falchi. La moglie di Cabello, Marleny Contreras, è ministro del Turismo. Il genero di Chavez, Jorge Arreaza, è appena diventato ministro degli Esteri. La stessa Rodriguez è figlia del fondatore della Liga Socialista, e attribuisce la sua morte nel 1976 alle violenze del presidente Carlos Andres Perez. Un risentimento che condivide col fratello Jorge, anche lui importante chavista, che però ha guidato con la sorella il negoziato con Zapatero.
L’ala militare, oltre a Cabello, è guidata dal ministro della Difesa Vladimir Padrino ed è la chiave della tenuta del regime. Lo sostiene perché, seguendo il modello cubano, è stata coinvolta nella gestione del Paese. Un terzo dei ministeri sono andati ai soldati, che controllano settori chiave dell’economia come il petrolio. Non hanno alcuna intenzione di tornare nelle caserme, e fino a quando i loro interessi verranno garantiti non molleranno Maduro, anche se tra i quadri più bassi e meno beneficiati gira il dissenso che abbiamo visto nell’attacco al Fuerte Paramacay.
Essendo una rivoluzione bolivariana e socialista, il chavismo dovrebbe poggiare sul popolo, ma questo sostegno vacilla. Il regime dice che al referendum costituzionale hanno partecipato 8 milioni di elettori, cifra prevista dagli analisti perché era il numero perfetto: meno dei voti presi da Chavez, che non può essere superato, ma più di quelli dell’opposizione nel contro referendum. La società che ha gestito la conta, Smartmatic, ha denunciato brogli, mentre la Reuters ha scritto che un’ora e mezza prima della chiusura dei seggi erano venuti non più di tre milioni e mezzo di elettori. Qualunque sia il numero vero, non c’è dubbio che Maduro abbia bruciato molti consensi. Si era capito nel 2015, quando aveva perso le elezioni per il Parlamento che ora sta esautorando, anche nelle «favelas» intorno a Caracas, tipo Petare, un tempo zoccolo duro del chavismo. Ora se parli con i sostenitori rimasti del regime, tipo il leader di Campomiranda Luis Figueroa, ti dicono che «il nostro successo è dare da mangiare a tutti con il programma Clap». Sono le buste di generi alimentari che vengono distribuite quasi gratis, con ciò che resta dei profitti del petrolio: 600 tonnellate solo a Petare, secondo il governo. Maria Rodriguez denuncia che «se l’economia va male è colpa dei nemici esterni», come fa Cuba con l’embargo americano, mentre Sixta Diaz dell’alcadia di Maturin è felice perché il regime «ha aperto un mercato per distribuire la carne a 500 famiglie a prezzi possibili». Tra la gente, dunque, l’appoggio al regime è ormai legato alla sussistenza, più che alla missione bolivariana-socialista. Oggi partecipano ancora alle marce pro Maduro, come quella di ieri vicino al Palacio Federal Legislativo, ma magari un giorno scenderanno in strada a protestare, se finirà l’assistenza.