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 2017  agosto 08 Martedì calendario

Scrivere è un’occasione per conoscersi davvero

Nel novembre del 1839, in soli cinquantadue giorni, Henry Beyle scrisse La Certosa di Parma. Dirà di avere tutto improvvisato. L’affidarsi all’estro del momento gli serviva a eliminare la distanza da ciò che scriveva; l’obiettivo era di evitare la dissociazione prodotta dalla consapevolezza di sé, lo sguardo su se stessi mentre si agisce, la distanza dall’emozione. Il risultato di questo stato di febbrile abbandono è così sconvolgente che nel momento in cui Henry Beyle ritorna in sé può dire di essere stato qualcos’altro – di più – di sé stesso: ed è perciò che deve trovare al proprio alter ego un nome diverso. Sarà Stendhal.
IL FANTASMA DEGLI ALTRI
Scriviamo e davanti a noi, sempre, c’è un fantasma di un altro: rappresenta l’autorità censoria che tendiamo a imporre alla realtà. Ciò succede, ad esempio, quando pensiamo di scrivere per il bisogno di compiacere o, peggio ancora, di essere amati. Da un nemico simile bisogna fuggire, perché tutto quel che creeremo sotto il suo dominio sarà fasullo. Come scrisse Proust, «un libro è il prodotto di un io diverso da quello che si manifesta nelle nostre abitudini, nella vita sociale, nei nostri vizi». Se vogliamo cercare di comprendere un tale io possiamo attingerlo solo nel profondo di noi stessi. Leggere e scrivere sono attività che ci trasformano, sollecitando pensiero e immaginazione, volontà e sensibilità. Leggiamo per potenziarci. Per lo stesso motivo scriviamo, nel tentativo di salvare tutta la tragica bellezza di ciò di cui siamo stati testimoni. Tutto il nostro mondo sparirà insieme alle nostre povere ossa; gli unici a resistere saranno Samuel Pickwick e Madame de Guermantes, Karl Rossmann e Mickey Sabbath. Siamo stati molto saggi a inventare i libri; senza di loro il passato si ridurrebbe in cenere. L’arte è un’investigazione attorno all’io che ci è sconosciuto: in altre parole, è fare filosofia. Il filosofo è colui che «ama la sapienza». E la sapienza – dice Diotima nel Simposio di Platone – è uno stato di perfezione nell’essere e nella conoscenza, una perfezione che al suo massimo può essere soltanto divina.
CIRCOLARITÀ
Ecco perché la religione greca finisce col suo vero dio: il saggio. Ed ecco perché sempre con lo stesso vero dio – il Saggio – finisce la letteratura. «Conosci te stesso» è la sentenza, iscritta nel tempio di Apollo a Delfi, che ogni scrittore dovrebbe tenere incorniciata davanti alla propria scrivania. Magari assieme alla perenne domanda che si pone Montaigne: «Come vivere?». Secondo Seneca bisogna raggiungere la pace interiore, concentrandoci su quello che abbiamo sotto gli occhi, qui e ora, e osservarlo con la massima attenzione. Si deve raggiungere l’atarassia: un equilibrato stato d’imperturbabilità. Nel momento di massima intensità e felicità, chi compie l’atto di scrivere riesce a raggiungere questo stato e può arrivare a scorgere il volto fino a quel momento celato del suo io più profondo. C’è una fatale contraddizione tra il nostro sentirci unici e la necessità di comunicare attraverso il linguaggio, che non può essere unico e irripetibile per il solo fatto che deve essere compreso da tutti. Con gli stessi strumenti con cui ordiniamo un pranzo o dibattiamo in un tribunale o litighiamo a un semaforo pretendiamo di creare un’opera d’arte che imponga con tutta evidenza quanto poco abbiamo a che fare con il cameriere che ci ha portato il menù, con la controparte in causa, con gli altri automobilisti e sostanzialmente con il resto del genere umano. È un po’ come se Renoir, una volta ultimata la tovaglia bianca ne Le déjeuner des canotiers, con quello stesso pennello si mettesse a riverniciare le pareti di casa; mentre accettiamo senza problemi l’idea che col vocabolario usato da Thomas Pynchon per scrivere L’arcobaleno della gravità si possa ordinare un caffè a San Francisco o comporre un sonetto satirico in rima: quelle parole sono predisposte a comunicare. Lo scrittore compie il gesto paradossale di aggredire la lingua come se fosse possibile pronunciarla per la prima volta, sfidando il carattere comune delle parole. Il rapporto tra l’uomo e il linguaggio è risolto felicemente; quello dello scrittore, invece, non deve esserlo: egli sente la debolezza congenita della parola, ad esempio ogni volta che il linguaggio tenta di rappresentare la realtà percettiva.
APPARENTI OVVIETÀ
La lingua comune è una galleria di specchi senza uscita. L’articolo 833 del Codice civile stabilisce che «il proprietario non può fare atti i quali non abbiano altro scopo che quello di nuocere o recare molestia ad altri». La matematica sostiene che 2 + 2 = 4. La lingua letteraria è l’abracadabra che ti permette di passare attraverso lo specchio, in un mondo dove la proprietaria di una casetta di marzapane si diverte a cuocere al forno i bimbi sperduti nel bosco e dove tutti i numeri sono irrazionali come il p; un mondo dove, alla faccia dei matematici, se in una certa situazione sono ipotizzabili due possibilità, non è detto che la più bella sarà quella giusta e nemmeno che esista una possibilità più giusta di un’altra: laggiù tutti i sentieri si biforcano, un insieme contiene tutti gli insiemi e Achille riesce a raggiungere la tartaruga.
INVESTIMENTO TOTALE
È per attingere da questo mondo notturno, angosciante e bellissimo che scriviamo: l’apprezzamento di un solo lettore o la gloria tributata da molti sono inappaganti. L’unico modo per raggiungere lo scopo è investire tutto sul processo, più che sul risultato; e rapportarsi solo alla propria interiorità. Faulkner suggeriva all’aspirante scrittore di non provare a essere migliore degli altri, ma di essere migliore di se stesso. È un altro modo per dire che bisogna cercare il nostro io nascosto. Il saggio è colui che trova la propria gioia nella miglior parte di sé – un sé trascendente, che è parte della Ragione universale. Siamo nudi, al centro del palcoscenico, e contempliamo sparpagliati attorno a noi i pezzi dell’armatura: un elmo di qua, uno scudo di là... le sovrastrutture che hanno appesantito ed offuscato il nostro io più vero: convenzioni, cultura, rapporti sociali, esperienza. Via tutto! Adesso siamo finalmente solo noi.