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 2017  agosto 08 Martedì calendario

Quelle storie restituite dai ghiacci. Così le alte temperature sciolgono i misteri degli alpinisti scomparsi

Cantone Vallese, Svizzera. Il ghiacciaio di Hohlaub ha nascosto per decenni il corpo di un uomo. Oggi la coltre gelata che ne ricopriva i resti si è parzialmente sciolta, riportandolo alla luce. E il test del Dna ha permesso di identificarlo: è un alpinista tedesco scomparso nel 1987. Alcuni giorni prima, nel ghiacciaio di Tsanfleuron, era stata ritrovata una coppia di svizzeri, i coniugi Dumoulin scomparsi 75 anni fa. Sotto i ghiacci delle Alpi riposano i corpi di centinaia di uomini e donne. Ma i ghiacciai si ritirano, perdendo un chilometro cubo all’anno, dal 1850 a oggi, si sono ridotti quasi della metà. E così restituiscono al mondo le vittime dell’alta quota. È probabile che nei prossimi anni ne emergeranno molte altre: solo nel Canton Vallese c’è una lista di 306 scomparsi dal 1925 a oggi. E sul versante francese del Monte Bianco sono 160 i dispersi di cui non si è avuta più traccia. Il riscaldamento globale è una minaccia per il mondo, ma per questi corpi è una carezza. Che permette a chi oggi si avventura sugli stessi passi di ritrovarli, riconoscerli, chiuderne il dolore della perdita. La storia dell’alpinismo è fatta di uomini che tornano dalla montagna e uomini che ci rimangono, e quella dei corpi restituiti dal ghiacciaio è una componente fondamentale del suo fascino. La montagna inghiotte gli uomini, li nasconde per un tempo indefinito e li restituisce altrove fin da quando l’alpinismo esiste, cioè da molto prima che i ghiacciai si riducessero all’attuale velocità (si riducono – è bene ricordarlo – dalla metà dell’Ottocento, senza che nessuno se ne sia mai preoccupato fino ai giorni nostri; ora che sulle Alpi sono meno che dimezzati cominciamo ad avere paura). Succede perché i ghiacciai non stanno fermi, scorrono verso il basso: così un uomo cade da una parete, viene sommerso da una valanga, precipita in un crepaccio, poi il ghiacciaio si chiude su di lui e il suo corpo rimane imprigionato lì dentro fino a quando, nella sua lenta discesa a valle, il ghiaccio che l’ha nascosto si scioglie e lo svela. Lo trovano altri alpinisti, o montanari, o cercatori di tesori, perché spesso il ritrovamento è prezioso e ostinatamente perseguito. I cadaveri più cercati nella storia dell’alpinismo sono probabilmente quelli di George Mallory e Andrew Irvine, che scomparirono salendo all’Everest nel 1924, trecento metri sotto la vetta, inghiottiti dalle nuvole, e non furono mai più rivisti: morti senz’altro, ma prima o dopo essere arrivati in cima? Se ce l’avessero fatta, la prima ascensione della montagna più alta del mondo andrebbe tolta a Edmund Hillary e Tenzing Norgay (e alla Nuova Zelanda e al Nepal, così poco bellicosi e memorabili) e spostata indietro di trent’anni (incoronando la gloriosa Inghilterra), per questo le ricerche sono tuttora in corso. Mallory è stato trovato, in buono stato di conservazione, nel 1999, ma la macchina fotografica in cui potrebbe nascondersi lo scatto di vetta era nello zaino del suo compagno, quell’Irvine che il dio Everest non ha ancora deciso di liberare. Altra storia che ha toccato i lettori come me fu quella di Gunther Messner, fratello di Reinhold, travolto da una valanga mentre i due scendeva- no dal Nanga Parbat nel 1970, cercato dal fratello per giorni a rischio della vita. Le sue spoglie furono restituite dalla montagna solo nel 2005 e toccò proprio a Reinhold, ormai sessantenne, andare a riconoscere i resti di un fratello rimasto per sempre giovane. Ma per noi che abitiamo sotto il Monte Rosa il nostro Mallory, il nostro Messner fu Ettore Zapparoli, campione di tante salite solitarie sull’immensa parete est (quella che incombe su Macugnaga, con i suoi duemila metri di roccia e ghiaccio verticali, è la più alta parete delle Alpi). Ettore un giorno d’estate del 1951, passando per l’ultimo alpeggio, salutò un montanaro chiedendogli di metter su la polenta per il suo ritorno, e andò a fare una perlustrazione in cerca della via che lo ossessionava, la diretta alla Zumstein che del Rosa è tra le vette regine. Era solo, era tardi, forse individuò la via e provò ad andare in fondo, forse cadde in qualche banale incidente com’è successo ai più forti: quel ghiacciaio, lo sanno per esperienza le guide di Macugnaga, restituisce i suoi morti dopo cinquant’anni, e quel che restava di Zapparoli fu trovato nel 2007 molto più in basso, dove il ghiaccio si fonde ormai grigio di sabbia e di ghiaia. Non riesco a essere troppo tragico parlando di questi alpinisti, ma non per scarso rispetto. Se ne scrivo con un po’ di leggerezza è perché tutti conoscevano la posta in gioco, hanno accettato il rischio e se ne sono andati facendo quel che amavano fare: e questa tra tutte a me sembra la morte più desiderabile. Ora che i ghiacciai del mondo si sciolgono sempre più in fretta, sale anche il ritmo dei ritrovamenti. I Mallory, i Messner, gli Zapparoli sono una minima parte rispetto alla massa dei dispersi senza gloria, senza memoria, senza nessuno che li cerchi. Una coppia di svizzeri trovata nel ghiacciaio Tsanfleuron (Canton Vallese) dopo settant’anni ha fatto scalpore, soprattutto per lo stato di conservazione dei corpi. Ma sono i vestiti, i ramponi, gli scarponi, non i volti a svelare da quanto stavano lì, e alla distanza un morto in montagna degli anni Venti non è poi tanto diverso da uno dei Settanta o degli Ottanta: facevano la stessa cosa senza senso e piena di passione – salire in cima alle montagne – con la stessa fatica, il cuore che batteva, i polmoni che pompavano, una corda che univa due desideri, e sono morti nello stesso modo. Quella sera non sono tornati in rifugio, li hanno cercati per qualche giorno, poi li hanno dati per dispersi, pianti, e lentamente dimenticati. Ce ne sono centinaia come loro ancora nascosti nei grandi ghiacciai delle Alpi: il Bianco e il Rosa e i Quattromila del Vallese, soprattutto i versanti nord che saranno gli ultimi a conservare i loro morti e i loro segreti, finché il ghiaccio si scioglierà del tutto. Quello sì che sarà un giorno triste, non per i morti insepolti ma per i vivi. Sarebbe meglio sparire in montagna prima.