Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  agosto 05 Sabato calendario

Intervista al sociologo Giuseppe De Rita che racconta sessant’anni di unione con la moglie Maria Luisa

«Qui è proprio lei: era questo il suo modo di guardarmi. Maria Luisa aveva occhi molto lunghi, uno sguardo che spandeva mistero ovunque». Giuseppe De Rita si fa portare un sigaro dalla segretaria, forse il primo e ultimo della giornata: come se volesse prendersi una pausa dal mondo, tuffandosi nella memoria personale che confonde vivi e morti, sentimenti privati e vicende pubbliche. Tra le mani l’album con le fotografie della moglie Maria Luisa Bari, mancata tre anni fa. Nella quiete estiva dell’elegante villino che ospita il Censis, il cellulare sembra irrequieto. «Ciao Bettona».
«Lori, ti sei ricordato del vecchio padre». È il giorno del suo ottantacinquesimo compleanno, e tra otto figli e quattordici nipoti le linee rischiano di rimanere intasate. Bisogna organizzare anche i turni delle vacanze per la Paradisina, la grande casa di Courmayeur che è quasi il simbolo della famiglia De Rita. Il patriarca risponde a tutti con rassicurante energia, ma spento il telefono la voce riacquista l’andamento di un adagio: non triste ma venato dalla malinconia dell’assenza, con guizzi improvvisi di ironia. «Guardi, c’è pure il sorriso dell’inizio. Eravamo a Sermoneta, nell’ottobre del 1952». Maria Luisa bellissima e sfrontata, lei invece appare come imbarazzato. «Lasci stare, io ero un tipo insulso, con la vivacità di uno gnocco». Ma non ci si innamora di uno gnocco. «Gli amici mi chiamavano Salomone per la saggezza. Forse le sarà piaciuto quel mio modo pacato di chi capisce lentamente, e magari non capisce mai». Che ci facevate a Sermoneta? «Dopo la guerra l’amministrazione alleata s’era messa in testa di rifare la cultura degli italiani. Così nel castello dei Caetani un maggiore dell’esercito prese a organizzare corsi di educazione civica. Mia moglie ed io – entrambi al second’anno di università – ci conoscemmo a uno di quei corsi di democrazia». Il primo incontro? «Un pomeriggio venne a fare lezione lo psicoanalista Claudio Modigliani che spiegò cos’è il sesso. Lei ne rimase scandalizzata. Allora io mi avvicinai: “Mi scusi, marchesina, ma non si deve arrabbiare troppo”. Gli misi una mano sulla spalla. E da allora non gliel’ho più levata». Perché la chiamava marchesina? «La chiamavamo tutti così per il tratto aristocratico. Aveva stile: nel muoversi, nel vestire. Nel porgersi agli altri». E questo a lei piacque. «Ero molto incuriosito. Volevo vedere cosa c’era dietro questa sua alterità. Io ero un ragazzotto plebeo, cresciuto nei giardinetti romani di San Giovanni. E poi gli occhi. Maria Luisa custodiva nello sguardo un segreto, qualcosa che sfuggiva». Come la corteggiò? «Non fu necessario. “Marchesina, lo sa che lei mi piace tanto?”, le dissi una volta tornati a Roma, mentre passeggiavamo dalla Sinagoga verso il Colosseo. “Pure lei”. Il corteggiamento finì lì». In che cosa l’ha cambiata Maria Luisa? «Mia moglie ha fatto di me un borghese. Io ero un popolano cresciuto nelle bande di strada. Non nego che i gesuiti mi abbiano formato, anche il liceo Tasso. Ma io ero rozzo, addirittura ero rozzo nel parlare. Un giorno mi sentì dire “porca tro…”. “Cos’hai detto?”. “Ho detto porca tro…, lo dico sempre”. “E allora ti lascio”. È stata lei a insegnarmi il valore della rispettabilità, il tono del comportamento. E anche l’ordine come stile di vita». E la scelta di costruire una famiglia con otto figli? «I figli sono venuti per allegria. Era un’avventura divertente. E in questo avevano ragione i nostri genitori che ci trattavano da incoscienti». Non la presero bene? «Mia madre ha sempre detestato Maria Luisa, anche per quel suo tratto irraggiungibile. E quando dopo il matrimonio la primogenita tardò ad arrivare, al grido di “vedrai che quella cinese manco i figli gli darà”, mamma si rivolse a Sant’Antonio». Non si può dire che non l’abbia ascoltata. «Pure troppo, secondo le nostre famiglie. Primo figlio, grandi festeggiamenti al bar del tennis. Secondo figlio, giusta soddisfazione. Terza gravidanza, gelo totale. Ma siete matti? Come pensi di pagare gli stipendi del Censis?, mi apostrofò mio padre. Al quarto, sempre al solito caffè, scoppiò la tragedia: mia suocera mi trattò come se fossi il violentatore di sua figlia. Tornati a casa, Maria Luisa scoppiò in lacrime: ma ti pare che debbano fare così?». E al quinto figlio? «Niente appuntamento al bar del tennis, ma un telegramma così concepito: se oggi siamo in sei a cantare mapin mapun, in ottobre saremo in sette a cantare mapin mapun. Stesso telegramma, con numerazione variata, per il sesto, settimo e ottavo figlio». Come facevate? Lei oltretutto lavorava moltissimo. «Anche Maria Luisa i primi tempi lavorava tanto: arrivava a scrivere anche sei puntate a settimana per Giocagiò, un programma per ragazzi della Rai. Poi lasciò tutto e si mise a fare la moglie, ma sempre con quel tocco d’artista che ha lasciato segni ovunque: i disegni, i collage, i libri, le case. Aveva una grazia particolare nell’arredarle. La casa di Assisi è così piena di rose che quando ci torno in primavera e le vedo muoversi al vento ho l’impressione che Maria Luisa ci sia ancora». E i bambini? «Se li è allevati da sola, senza neppure l’aiuto d’una cameriera. Io spesso stavo fuori. La sera a casa mi capita di sfogliare le sue agende – mia moglie teneva sempre un diario, anno per anno. E ogni due pagine leggo: “G. non c’è”. “G. è fuori”. “G. non sarà con noi nel week-end”. Ero una continua assenza. E me ne rendo conto solo adesso». Sua moglie glielo diceva? «Una volta appese nel mio studio un quadretto ricamato: “Guai chi mi tocca il sabato”. Ma io continuai con i soliti ritmi». Qual è stata la chimica del vostro matrimonio? «La fortuna. Abbiamo avuto una vita fortunata, favorita anche da condizioni storiche straordinarie: da questo punto di vista irripetibile. Il nostro è stato un amore tranquillo, che detto così può sembrare banale: un sentimento disteso nel tempo, senza picchi né cadute, ma sempre molto intenso». La fortuna può spiegare tutto questo? «E allora aggiungo che mia moglie e io siamo state persone estremamente fedeli. Fedeli a tutto: al matrimonio, ai figli, al lavoro, agli amici, agli affetti. La fedeltà è un’attitudine esistenziale che deriva dalla radicalità della fiducia. Un’attitudine che in noi è stata alimentata da un meccanismo religioso molto forte. All’indomani della nostra dichiarazione d’amore, eravamo a messa a San Giovanni. Alle sette del mattino. Così ogni giorno finché ci siamo sposati». Cosa succede quando si resta soli? «Il vero problema è che io non ero pronto. Mia moglie stava male, ma io m’illudevo che si sarebbe ripresa. Lei invece era prontissima: con le sue preghiere, la Bibbia, i testi settecenteschi di devozione. Fino alla fine abbiamo scherzato insieme». Come ci si abitua alla solitudine? «Non ci si abitua. La felicità è cosa per due. Mi ha fatto riflettere una pagina di Dietrich Bonhoeffer: se c’è una separazione, Dio non viene a coprire il vuoto della distanza ma semmai allarga la divisione perché il vuoto rappresenta la tensione delle due parti a riavvicinarsi». Il vuoto deve restare tale? «In realtà il vuoto non è vuoto, e il silenzio non è silenzio. Ora non vorrei apparire patetico, ma se un uomo rimasto solo la sera mette una mano sul cuscino della moglie sente il vuoto ma sente anche il rapporto misterioso che continua a vivere». Come si immagina in Paradiso con lei? «I talmudisti dicono che il Paradiso è il luogo in cui si continua a studiare la parola, con gli altri e con Dio. E, nonostante i sessant’anni insieme, con Maria Luisa abbiamo ancora tanto da dirci».