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 2017  agosto 06 Domenica calendario

La dura vita dei bimbi bellissimi

La bimba con la faccia smunta diceva «sono stanca mammina». E la mamma con la faccia spigolosa rispondeva «brava cucciola, ce l’hai fatta». Un’altra svettava sulle sue scarpette di pailettes e ricami, i jeans stretti quanto basta e i capelli lunghi quanto basta. Pareva a suo agio nella sua sfilata mignon di periferia milanese mentre il sessantenne viscido della giuria, con la montatura strana e i capelli corti, elemosinava pose da donna convinto di aver trovato la nuova cucciola da spellare. È un mondo di bimbi infelici e costretti quello dipinto dalla scrittrice Flavia Piccinni nel suo libro Bellissime. Baby miss, giovani modelli e aspiranti lolite (Fandango, 200 pagine, 16 euro). (...) :::segue dalla prima SIMONA BERTUZZI (...) E di caparbie mamme, vuote e irrealizzate. Comunque la si prenda, ovunque la si giri. Un’inchiesta approfondita sul mondo delle baby modelle e di genitori moderatamente sfigati convinti di infilare le loro frustrazioni e aspettative deluse nei corpicini esili dei loro bambini. Chi fa mille chilometri per andar dalla Puglia a Milano e partecipare all’ultimo casting del marchio di gelati. Chi non ha un soldo per campare e butta nel cesso 500 euro per mettere insieme un album fotografico degno del nome. Chi gioca la doppietta, sorellina bella e fratellino bello, ma poi non si dà pace se nessuno dei due va a segno. E mentre scorrono i volti stralunati di nonni imbarazzati, mamme in jeans disinvolte e papà distratti che non sanno, non sono e non sentono, smarriti e sorpresi a capire il proprio ruolo di padre, monta in bocca uno strano senso di rigetto per quel mondo ovattato di finzione precoce e per la tesi sussurrata qua e là: «Da piccola mi sentivo brutta e questo mi ha salvato». Cinquenni da Moulin Rouge. Appuntatevelo perché ho detto cinquenni, non cinquantenni. Bimbe di sette anni che ammiccano, seducono, si truccano e sculettano nella loro taglia rigorosamente small. E un tariffario da capogiro: 300 euro la giornata, mille la settimana, se poi il pupetto dice una frasetta ben assestata, evviva, mamma è contenta e anche il cachet. Che poi le mamme. Tutte uguali e tremendamente tristi nel loro essere così poco mamma e così tanto adulta effimera. Le vedi attendere figlie tutte boccoli e ninnoli dietro le quinte, fingono serenità ma sono un fascio di nervi. Hanno voci stridule e modi melliflui mentre giurano «amorino mio è solo un gioco», ma poi fanno il broncio se l’amorino non passa la selezione. Asciugano nervosamente lacrime di bambino, ma vorrebbero consolare il loro pianto di donne deluse. Le peggiori dicono: «Per mio figlio/figlia è solo un gioco», come no. No, non serve essere brutti per essere felici. Serve essere normali. Non fraintendete. Piccinni è maestra nel dipingere un mondo ovattato e fragile di spot e moda «sulla pelle dei bambini». Bravissima ad assemblare storie e vissuti. A scandagliare situazioni e fotografare un’Italia sconosciuta e oscura. Ma chi legge ha sempre la sensazione che manchi un perno, un punto di vista. Che l’assunto di fondo sia davvero quella cosa lì, che gran fortuna essere brutti. E non piuttosto essere semplicemente madri e figli senza orpelli vacui ma con soltanto la voglia di amarsi e capirsi. Dico davvero, chi legge il libro ha bisogno ogni tanto di riemergere, guardare altrove e respirare il mondo che conosce e ama di giochi fanciulleschi e liberi. Oppure spezzare una lancia per quei ragazzini impomatati e silenziosi. Viene voglia di stringerli, tirarli a sé e coccolarseli tutti quanti. E stare a sentire i loro cuori, che magari se sono lì una ragione superiore ci sarà, come la voglia di far felice mamma e darle il senso che da sola non ha trovato. Brava la Piccinni a fotografare un universo di carta poco conosciuto, ma resta un po’ il senso di vuoto e baratro. E non basta rifugiarsi nella citazione sapiente di Dacia Maraini – «Ogni donna che abbia voluto fare qualcosa della propria vita che non fosse già stabilito in partenza ha sempre avuto a portata del cuore e della memoria un’altra donna» – per consolarsi dalla solitudine e guardare un po’ più in là.