la Repubblica, 6 agosto 2017
Umano Bolt. L’ultimo lampo è lento: «Grazie del vostro affetto»
Addio Bolt. Il mondo stanotte era troppo pesante per le tue spalle. Non sei più lampo, solo il rumore di un temporale lontano. E non sei più re, nello stadio della regina. Ti hanno portato via corona, mantello e regno. Spodestato da un vecchio nemico, dall’americano Justin Gatlin, 35 anni, che lo inseguiva da una vita. Bolt è terzo in 9”95: è partito male e non ce l’ha più fatta a recuperare. L’ultimo allungo era ormai quello di un gattone svogliato di 31 anni. In uno stadio raggelato, che però lui ha ringraziato, anche se con la voce un po’ rotta: «Grazie del vostro affetto». Il suo giro d’onore è stato mesto, ma quello dei vincitori è passato inosservato. Nessun fotografo dietro a Gatlin che ha vinto l’oro con 9”92, argento all’altro statunitense Christian Coleman, 21 anni, in 9”94. Bolt si ferma a tre ori mondiali sui cento, non sorpassa Lewis e Greene. Generazione Higlander cresce nello sport: Gatlin, 35 anni, padrone della velocità, Roger Federer, 35 anni di Wimbledon, Tom Brady, 40 anni, porta i New Englands Patriots a vincere il Superbowl, Federica Pellegrini a 29 si riprende l’oro mondiale nei 200 stile libero. Fa niente, se Bolt non è più quello di una volta: e non per il pizzetto. Ha perso leggerezza, fluidità, qualità muscolare, è meno esplosivo, corre di coscia più che di piede. È invecchiato, ha messo su peso, soprattutto nella parte superiore, non è più scintillante. Tutto vero, e allora? La Gioconda si restaura, un corpo no. Provateci voi a resistere in cima per nove lunghi anni, con il mal di schiena, e a correre contro ogni nuova generazione che vuole il vostro scalpo. Gay si è spezzato per inseguirlo, Powell è affondato nella sua pavidità, Blake nella sua muscolosa vanità, Gatlin ha continuato ad inciampare nel doping (da qui i fischi). Fino al suo addio tutti in fila, dietro a Usain. La temperatura fredda di Londra non ha aiutato il cronometro: se due anni fa a Pechino tutti i finalisti avevano corso le semifinali sotto i 10” qui ci riescono solo in due: Coleman (9”97) che al fotofinish brucia Bolt (9”98), prima sconfitta. E guarda caso sono nella stessa batteria, e prima di piombare sul traguardo si guardano a lungo: dove vai, ragazzino? A fregarti lo sprint, campione. Sta tutto in uno sguardo di sfida, l’eterna faida nello sprint tra America e Caraibi, tra il continente e le isole, tra orgogli e pregiudizi. Bolt dice addio, è la sua ultima volta, correrà ancora nella staffetta. Ha salvato l’atletica dopo lo scandalo doping (Balco), l’ha distrutta riducendola a one man show. No Bolt, no party. Lascia da Mister Gold: 14 medaglie mondiali. Dieci anni e due settimane dopo aver corso i primi 100 metri della sua carriera (10”03), solo per una scommessa con il suo coach e per evitare gli odiati e faticosi 400 metri, visto che l’accordo era che un buon tempo avrebbe cancellato il giro di pista dal programma. Il regno di Bolt è quasi inviolato: 85 cento metri, una falsa partenza, 54 finali, 30 turni di qualificazione, per un totale di 55 crono sotto i 10” (di cui due ventosi), tre record del mondo, 4 sconfitte nei meeting, e questa nella sera del suo addio, dimostrano che non è stato solo uno showman romantico, ma un uomo pragmatico. Non ha mai smesso di affascinare, non è mai stato banale, quando non ha più avuto energia o voglia di andare a 44,7 chilometri orari lo ha ammesso: ho finito la benzina. E anche se in programma non c’erano più miracoli, la gente ha pagato lo stesso il biglietto, per poter far parte dello spettacolo. Infatti proprio prima dei 100 c’è stata l’invasio- ne di un uomo nudo che si è messo a correre sulla pista e i poliziotti che lo hanno portato via sono stati fischiatissimi. Bolt è stato l’unico sprinter social di tutta la storia dell’atletica, ha condiviso ogni corsa, ha tweetato con ogni sprint, si è voltato verso il fotografo addirittura in una semifinale olimpica, ha scattato selfie con tutto lo stadio, ha lasciato entrare il mondo nel suo mondo. Non è mai stato il secchione che fa tutto per bene, anzi l’opposto: ha vinto con la scarpa slacciata, andando a letto alle cinque di mattina, con partenze ai blocchi disastrose. Né ha mai fatto finta di essere impegnato: non sapeva chi fosse Jesse Owens, non vuole rogne politiche, non è il tipo che di notte si mette a visionare i filmati d’archivio dell’atletica (preferisce il Manchester). Però vedere ai mondiali di Berlino nello stadio del ‘36 i bambini biondi tedeschi che si erano anneriti i volti per sembrare come Bolt, ha rimesso a posto la storia e il razzismo più di tante dimostrazioni politiche. All’aeroporto di Kingston in Giamaica c’è il suo poster a darvi il benvenuto. Quello di un ragazzo a cui piaceva correre. Stop.