CorrierEconomia, 7 agosto 2017
Alessandro Benetton comprate (e fate). Buone azioni a noi rendono il 20% l’anno. Intervista
Mettiamola così: per i riflettori non ha mai smaniato ma, adesso, era davvero quasi sparito dai radar. Giusto qualche avvistamento – anche questo complicato: chiedere al numero uno del Coni Giovanni Malagò – durante il lungo, insistito pressing perché accettasse la presidenza della Fondazione Cortina 2021. Alla fine Alessandro Benetton ha ceduto e dunque sì, è il suo il volto dei mondiali di sci di ritorno sulle Dolomiti. Non soltanto perché quella è un po’ la «sua» montagna: non è difficile credergli mentre spiega che, se poi a un certo punto si è deciso, a far da molla è stata la convinzione che «nella vita, se ricevi, non dovresti perdere le occasioni per restituire». Detto con un filo di ottimismo (cauto, per carità) e ripensando (forse) ai tre campionati vinti da presidente della Benetton in Formula 1. Quando aveva Michael Schumacher, alla guida.
Poi però, parentesi sui mondiali ampezzani a parte, stop. Pochissime uscite, quasi nient’altro da segnalare. Dal 2014, quando lasciò il vertice operativo dell’azienda-simbolo di casa perché «non c’erano le condizioni per portare a termine» quello che gli era stato chiesto di fare, Benetton si è mediaticamente come eclissato. Per cui sì. Dopo avrebbe potuto – potrebbe – dire la sua. Invece sembra considerarla storia di un’altra vita, quella parentesi «in prestito» (disse così, allora) alla United Colors of. Quindi, a che pro alimentare guerre?
Magari non l’ammetterà, che è per questo, ma è un fatto che negli ultimi quattro anni lei si è tenuto volutamente lontano da qualunque scena pubblica. Dov’era?
«Dove sono sempre stato: in 21 Investimenti. Non ho mai abbandonato la presidenza operativa, nemmeno negli anni in cui mi sono occupato anche di Benetton».
Adesso però ci è tornato full time. L’ha fondata nel 1992, ha contribuito a introdurre il private equity in Italia, da un po’ ne ha rivisto il modello: solo partecipazioni industriali, solo di maggioranza. Dove la vuole portare? E soprattutto: che cosa è cambiato?
«Tutto. Nel mondo è cambiato tutto. Una cosa, per me, è rimasta sempre la stessa: la voglia di fare l’imprenditore».
Nell’impero di famiglia non era possibile? Nemmeno agli inizi? Anni Novanta, gruppo in piena espansione, lei fresco di master ad Harvard con Michael Porter...
«Diciamo che idee ne avevo e proposte ne ho fatte. Ma all’epoca il “modello Benetton” funzionava e quando dissi, per esempio, che il mondo dello sport sarebbe cambiato in fretta, che anche quello sarebbe stato attaccato dalla grande distribuzione e che, quindi, noi avremmo dovuto attrezzarci rivedendo tutta la Benetton Sport System, non venni preso molto sul serio. Per carità: avevo 26 anni e io per primo capivo che potevo essere considerato un po’ sbruffone, forse persino ridicolo».
Così?
«Così mi misi per qualche tempo alla finestra. Non potevo escluderlo, di essere io a sbagliare».
Ma lo fece, alla fine. Lo escluse.
«Non sono tanto presuntuoso. Però credevo in quello che proponevo, e allora la scelta è stata: mettermi alla prova, essere indipendente, farlo in proprio, l’imprenditore. Certo, ho avuto l’aiuto di tutta la mia famiglia, che in 21 ha investito. Ma da 21 ha poi anche guadagnato con ottima soddisfazione».
Quanto la valutiamo, l’«ottima soddisfazione»?
«Posso dire che, mediamente, i progetti che ho promosso hanno raddoppiato o triplicato il loro valore».
Mentre la Sport System di cui sopra, già in quegli anni, l’attacco delle varie Decathlon l’ha dovuto fronteggiare sul serio. E non è finita bene.
«Sport System è stata un bellissimo progetto. Ancora nel 1995 aveva un cash flow di 150 miliardi di vecchie lire. Purtroppo, non ha potuto prepararsi ai grandi cambiamenti».
E tutto quel cash l’ha bruciato in pochi anni. Neppure in quel caso ha detto: «Ve l’avevo detto»?
«Quando si viene da una famiglia, da una situazione di privilegio come quelle dalle quali vengo io, potersi mettere alla prova in proprio e doversi prendere le responsabilità da soli – hai ragione o torto, preso la decisione giusta o quella sbagliata, vinto o perso – alla fine è anche l’unico modo per lavorare sereni. L’unica strada per l’autostima».
Tradotto: per vincere il complesso, inevitabile, di padri che sono dei giganti. Il suo, Luciano, lo è.
«Io mio padre lo ringrazio perché non è stato solo un punto di riferimento, o di confronto, ma per il supporto che mi ha dato. Sempre. E anche mia madre – scusi, ma non se ne parla mai: estremamente affettuosa, ogni tanto confusionaria, però l’empatia me l’ha insegnata lei».
Quindi: soddisfatto della sua società, nessun rimpianto per tutto il resto.
«Ho la fortuna di fare quello che mi piace. E di farlo con dei risultati, direi. Venticinque anni fa ho messo quel numero, “21”, davanti a “Investimenti” perché l’ambizione era provare ad anticipare il secolo in cui siamo oggi. L’idea era stare concentrati sulle attività industriali delle aziende, mai farsi tentare dalle fasi speculative della finanza, interpretare i cambiamenti in arrivo. Sono via via più veloci, violenti, dirompenti, e non sempre l’imprenditore che ha fondato l’attività riesce a leggerli. Noi lo facciamo, e mi pare bene, anche: dal 2007, l’inizio della grande crisi, abbiamo raddoppiato o triplicato fatturato e risultati operativi delle nostre partecipate. PittaRosso o i vini Farnese, solo per citare due delle società in cui abbiamo completato il lavoro e che di conseguenza abbiamo ceduto (nella prima in realtà abbiamo conservato una piccola quota), erano due aziende promettenti ma poco di più. Oggi sono due brand di successo».
Non c’è dubbio. La domanda è: questo lavoro da «motore della crescita», e a maggior ragione considerando che le vostre imprese le trovate grazie a un rapporto molto stretto con il territorio, non dovrebbe essere il lavoro delle banche? Il vostro successo non è, almeno in parte, sinonimo del loro fallimento?
«No, non penso sia vero. C’è una differenza fondamentale. Noi ci sostituiamo all’imprenditore. Il banchiere non lo deve fare. Dopodiché, è invece verissimo che anche quello delle banche è un mestiere che deve cambiare, che vanno usati strumenti nuovi e diversi».
Lei lavora in Europa ma vive in pieno Nord-Est. È solo un caso che il vecchio modello imprenditoriale, del quale peraltro la Benetton era stata il simbolo, sia andato in frantumi e che le due principali banche del territorio siano naufragate negli scandali? Oppure quel vecchio modello ha alimentato, a un certo punto, una sorta di «baco del Nord-Est», che ha divorato se stesso e, forse, non poteva che finire nei disastri di Popolare Vicenza e Veneto Banca?
«Non lo so, e qui è facile cadere nei luoghi comuni. Quello che è successo l’abbiamo sotto gli occhi, tutti. Detto ciò, non sottovaluterei l’effetto spartiacque della Grande Crisi. Non è stato totalmente negativo: ha fatto in qualche modo pulizia, ha separato chi era in grado di stare sul mercato da chi non lo era, ha consentito anche nel Nord-Est – e forse soprattutto qui – l’affermarsi di un sistema imprenditoriale sano, competitivo, più aperto al cambiamento. In 21 siamo orgogliosi di averne intercettato una parte e, ancora di più, di avere tra i nostri soci molti degli imprenditori di cui avevamo rilevato le aziende».
Almeno alcuni di quegli imprenditori erano, o sono, alle prese con i problemi di ricambio generazionale. Grande o piccola che sia la famiglia, che l’impresa sia una multinazionale oppure faccia poche decine di milioni di fatturato, il passaggio è sempre tanto complicato da mettere a rischio, a volte, lo stesso successo faticosamente costruito negli anni. Perché succede? Perché le famiglie, a un certo punto, diventano cieche?
«Perché è umano, perché ognuno di noi si identifica con quello che ha costruito, perché c’è un coinvolgimento emotivo che alla fine diventa il limite, ma all’inizio è anche il plus dell’economia italiana, l’elemento che consente la nascita di tante attività di successo. Solo che arriva sempre, per tutti, il momento in cui guardando avanti occorre accettare le ragioni del rinnovamento. È difficile staccarsi da quel che si è inventato, lo capisco, ma è come non voler riconoscere le doti di un figlio solo perché non si incastrano nel meccanismo che tu hai creato. Lo vedo spesso, mi creda, ed è l’altra faccia del rifiuto del cambiamento. Poi è vero che si vedono altrettanto spesso anche figli incapaci e presuntuosi. Nell’uno e nell’altro caso, però, a dettare le regole è un “dettaglio”: il cambiamento non lo puoi rifiutare. O lo governi, e possibilmente lo anticipi, o ci sarà comunque. Senza di te».
Voi adesso dove lo «governate», il mondo che cambia? Se dovesse tirar fuori un nome solo, dal portafoglio di 21, su quale punterebbe?
«Si segni Forno d’Asolo. Direte: fa solo brioche. Ma le fa per tutti i bar d’Italia. Presto andrà all’estero. E ci consentirà di dimostrare un altro dei nostri paradigmi: e cioè che anche la sostenibilità – dunque l’attenzione all’ambiente, al territorio, alle persone, alle tradizioni – è un fattore di competitività e un valore (a bilancio). Non solo si ripaga ma conviene all’impresa. Sono i concetti che Porter ha sintetizzato con il termine shared value economy, e non a caso 21 Investimenti è il suo primo partner al mondo nel private equity».
Gioca facile: per le politiche di sostenibilità avete appena ottenuto il premio 2017 alle «Best Practices Honours». In giuria, per dare un’idea, c’è l’Ocse.
«Ovviamente ne siamo orgogliosi. Anche perché è la prima volta per un’azienda italiana».