La Stampa, 6 agosto 2017
Oscar a Adrien Brody: «A 44 anni mi sento un veterano. Ora dipingo e penso alla regia»
Nel 2002 con Il pianista è stato il più giovane attore a conquistare l’Oscar da protagonista; a 44 anni ha l’onore di ricevere in Piazza Grande a Locarno il Pardo d’oro alla carriera, un riconoscimento di solito destinato a cineasti più vetusti.
Visibilmente commosso, il newyorkese Adrien Brody ha dedicato il premio ai genitori, che cita spesso. «Quando a 12 anni ho affrontato il primo provino, mio padre mi ha detto: “Vai come se già l’avessi superato”. Intendeva: “Pensa solo a essere il tuo personaggio”. È ciò che da allora ho sempre fatto». Esordio precoce, lezioni di recitazione, teatro off-Broadway, televisione, qual è il film che l’ha segnalata all’attenzione? «A darmi visibilità sul grande schermo è stato nel 1993 Steven Soderbegh con King of the Hill, poi sono arrivati Terrence Malick con La sottile linea rossa e Spike Lee con Summer of Sam, dove ho incarnato un personaggio che mi ha aiutato a capire perché ho scelto di recitare. Il film è ambientato nella torrida estate del ’67 in cui circolava un serial killer di donne. Io sono un ragazzo del Bronx che si sente diverso dagli altri, e per questa diversità viene sospettato di essere il misterioso assassino. Ecco, il lavoro dell’attore per me consiste in questo: mostrare l’essenza di un essere umano, smontando giudizi e pregiudizi superficiali».
In quel film suonava in una band punk, nel Pianista ha suonato Chopin. «Un’esperienza unica, irripetibile. È un ruolo che mi ha richiesto un’enorme responsabilità: dovevo rappresentare la memoria di chi, come Roman Polanski, aveva davvero attraversato quell’incubo indicibile ed era perfino riuscito a sublimarlo in arte. Prima di girare Il pianista non avevo capito l’entità della tragedia dell’Olocausto. Nei sei duri mesi di lavorazione ho avuto modo di accostarmi, a livello fisico direi, a quella realtà. Una dieta da fame, ore e ore solitarie di esercitazione al pianoforte e cominci ad avere un’idea di quanto sei privilegiato a non aver vissuto certe sofferenze, e quali strascichi emotivi brucianti ti lascino dentro. Dopo Il pianista tutto mi è sembrato facile».
Tra commedia e horror
Polanski gli ha dato modo di dimostrare il talento drammatico, Wes Anderson la possibilità di giocare sul registro brillante. «Wes lo adoro, riconosci il suo stile in ogni frammento di immagine, è un incredibile narratore di storie. Mi ha permesso di essere buffo, di esprimere un aspetto di me che nessuno sospettava. Gli sono grato». Di Giallo con Dario Argento che ricorda? «Dario è una persona amabile e gentile anche se gli piace far vedere gente smembrata. Con lui mi sono divertito ed è giusto così, perché il nostro è un mestiere ludico. Un giorno ti trovi sul set di Il pianista, un altro fai King Kong con Peter Jackson ed è un’esperienza ugualmente appassionante. Nove mesi di riprese, la responsabilità di essere una pedina in un ingranaggio programmato in ogni dettaglio, la difficoltà di interagire con esseri e cose che non ci sono: nuoti in un’acqua immaginaria, ti appendi a un fune inesistente… Ma, al di là della tecnologia, la sfida è far emergere la verità drammatica che è la sola che conta».
Qualcuno ha criticato il suo passaggio come modello nel mondo della moda. «L’importante è fare le cose seriamente. Finché ho una taglia da campionario, intendo continuare. Sono cresciuto nel Queens indossando abiti usati, non è male vestire cose belle». Ha mai pensato di passare alla regia? «Spesso, lavorando ho imparato molto e non credo sarei peggio di altri. Ho delle idee, ma per concretizzarle ci vorrà tempo. Per ora mi dedico alla pittura, un antico amore che mi consente di esprimermi in totale libertà». Da un’arte all’altra. «L’arte è fondamentale, per questo mi preoccupano i tagli alla cultura di Trump. La cultura crea ponti, ci aiuta a capire il nostro presente, a traghettarlo alle nuove generazioni».