Dionigi Tettamanzi se n’è andato senza clamori e senza rancori, come era vissuto. Prete della Milano montiniana e conciliare, aveva studiato morale in tempi in cui a quel tipo di teologi il cattolicesimo vissuto domandava permessi e giustificazioni che oggi farebbero sorridere. Poi, nella stagione di Wojtyla, ebbe un percorso di carriera rapido e ripido: di quelli che spesso rivelano ambizioni che però non erano le sue. Fu arcivescovo ad Ancona per un anno e mezzo e subito segretario generale della Cei della presidenza Ruini, fra il marzo 1991 e l’aprile del 1995, nel tumultuoso passaggio dalla chiesa del collateralismo a quella della indulgenza per il proto- berlusconismo. Da lì andò a Genova, in un’epoca in cui esistevano le sedi “cardinalizie”, e ricevette la berretta nel 1998. Non era stato il successore diretto del cardinale Siri, ma era il primo e l’unico arcivescovo a misurarsi da fuori con l’impronta di colui che era stato definito il “delfino” di Pio XII e il riferimento di quel mondo reazionario che vedeva nel concilio un male, in Montini un nemico e in Moro un demonio.
6 agosto 2017
In morte di Dionigi Tettamanzi
Andrea Tornielli per La Stampa
È morto Dionigi Tettamanzi, 83 anni, arcivescovo emerito di Milano, la diocesi che ha guidato dal 2002 al 2011. Il cardinale soffriva per il riacutizzarsi della malattia che l’aveva colpito alcuni anni fa. Nato a Renate, in Brianza, nel ’34, entra in seminario a 11 anni. Don Pasquale Zanzi, per 45 anni parroco di Renate, il sacerdote che per primo intuì la vocazione di Dionigi, spesso gli ripeteva «Te sé piscinin, ma te ghé un bel crapin» («Sei piccolino di statura, ma hai una bella testolina intelligente»). È ordinato prete dall’arcivescovo Giovanni Battista Montini, futuro Papa, nel 1957.
Nel 1989 viene nominato arcivescovo di Ancona-Osimo, ma il suo episcopato nella diocesi marchigiana è breve: nell’aprile ’91 la lascia per assumere l’incarico di segretario generale della Conferenza episcopale italiana, primo atto significativo della presidenza di Camillo Ruini. Sono gli anni di Tangentopoli, della nascita della Seconda Repubblica, della fine del partito unico dei cattolici. È Tettamanzi segretario a permettere l’operazione editoriale che porterà ad allegare i Vangeli, gli Atti degli Apostoli e l’Apocalisse al quotidiano l’Unità, allora diretto da Walter Veltroni. Nel ’95 Giovanni Paolo II lo nomina arcivescovo metropolita di Genova. Sarà creato cardinale nel concistoro del 1998. Ma la città della Lanterna non è la sua destinazione definitiva. La decisione di nominarlo arcivescovo di Milano è inedita: uno strappo alla tradizione non scritta che mai aveva visto nell’ultimo secolo un arcivescovo metropolita già porporato passare da una sede a un’altra. Tettamanzi racconterà che nel comunicarglielo, durante un’udienza a Castel Gandolfo, l’ormai anziano e malato Giovanni Paolo II gli aveva fatto una carezza sulla guancia.
Il 29 settembre 2002 Tettamanzi entra a Milano e riceve il pastorale dal suo predecessore, il cardinale Carlo Maria Martini. A fare breccia tra la gente ambrosiana è lo stile di Tettamanzi: alla fine di ogni celebrazione rimane per lungo tempo a disposizione dei fedeli, di chiunque voglia avvicinarlo per stringergli la mano o rivolgergli una richiesta.
Nel 2005, alla morte di Giovanni Paolo II, il nome di Tettamanzi circola tra gli osservatori come quello di possibile «papabile». C’è chi enfatizza la sua commozione al momento di lasciare il palazzo arcivescovile di piazza Fontana, considerandola quasi un presentimento. Ma già alla prima votazione nella Sistina, per il rapidissimo conclave che nel giro di 24 ore porterà all’elezione di Joseph Ratzinger, ci si accorge che i veri «papabili» sono altri.
Negli anni dell’episcopato milanese lui, espressione di un cattolicesimo popolare nonché collaboratore da dietro le quinte di molti scritti wojtyliani di morale, finisce per venir rappresentato – con una evidente caricatura – come un pericoloso progressista da chi non lo considera perfettamente allineato con Ruini e con la visione culturale e politica degli «atei devoti» che consacrano il berlusconismo. Aprendo i lavori del Convegno della Chiesa italiana di Verona, si distanzia da quella linea. Finisce nel mirino di attacchi rozzi, come quelli del ministro leghista Roberto Calderoli che lo definisce «imam» per le sue parole sull’accoglienza verso i musulmani.
La successione
La Milano che Tettamanzi lascia nel 2011, quando gli succede Angelo Scola, fino ad allora patriarca di Venezia, è diversa da quella che ha trovato. «Il futuro è nella carità», profetizza l’ormai arcivescovo emerito, a motivo delle trasformazioni sociali e della crisi economica: a Milano «ho trovato il progressivo impoverimento economico delle famiglie, ma al tempo stesso l’aumento della pratica della solidarietà; la crescente disaffezione verso la politica e l’aumentata voglia di “dire la propria” sulla città; il peggioramento di alcune prospettive di stabilità per il lavoro dei giovani ma, insieme, le accresciute opportunità formative e culturali; l’aumento del numero degli immigrati e la crescente incapacità a farli sentire protagonisti della società; l’aumento della ricchezza per pochi, l’indebitamento crescente per molti. Dimenticavo un’altra cosa che non è cambiata: gli anni della cosiddetta Tangentopoli pare che qui non abbiano insegnato nulla, visto che purtroppo la questione morale è sempre d’attualità».
Con Tettamanzi arcivescovo la diocesi ambrosiana istituisce il Fondo Famiglia Lavoro, per aiutare chi è in difficoltà. Un modello che sarà replicato in altre diocesi. Da emerito, il cardinale Tettamanzi si ritira a Triuggio, in una residenza dell’arcidiocesi di Milano, dove lo assisteranno fino alla morte. Non vuole essere (e non sarà) ingombrante per il suo successore: non rilascia interviste, non diventa, come talvolta accade agli emeriti – più o meno inconsapevolmente – il referente della «fronda» al vescovo in carica. Continua a dedicarsi invece all’attività pastorale, celebrando le cresime nelle parrocchie, aiutando così il suo successore. Dopo le dimissioni del vescovo di Vigevano Vincenzo Di Mauro, nel luglio 2012 Tettamanzi è nominato amministratore apostolico di Vigevano, dove rimarrà per un anno, fino alla designazione del nuovo pastore, andando avanti e indietro da Milano. Nel marzo 2013 partecipa al conclave da cui esce papa Jorge Mario Bergoglio, che farà in tempo a incontrare nella “sua” Milano 4 anni dopo, il 25 marzo scorso: pur gravemente malato, riuscirà a essere presente in duomo, e a ricevere così l’abbraccio di Francesco.
Il bilancio
Prima di lasciare la diocesi, facendo un bilancio del suo episcopato milanese, aveva detto: «Oggi più che mai abbiamo bisogno di una Chiesa radicata in Cristo, che metta lui e non l’organizzazione o il successo mondano al centro». E nei giorni della malattia, anche nei momenti nei quali non era presente a se stesso a motivo dei farmaci, ha continuato a raccomandare «la preghiera e il lavoro per l’unità della Chiesa», come sua principale preoccupazione che sgorgava dal suo inconscio. La preoccupazione che ha segnato tutta la sua vita di fedele servitore del Vangelo e dei Papi che si sono succeduti sulla cattedra di Pietro.
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Giangiacomo Schiavi per il Corriere della Sera
Basterebbe l’immagina di lui con i piedi nel fango in un campo rom di Milano per rendere meno amaro il Natale di una bambina malata, oppure l’annuncio fatto dal pulpito del Duomo di aver venduto i quadri di casa e messo all’asta la collezione di preziosi presepi creando con l’intero suo patrimonio un fondo di solidarietà destinato alle famiglie in crisi, per farne il cardinale del coraggio e dell’esempio. Ma Dionigi Tettamanzi, morto ieri all’età di 83 anni, è stato molto di più. Nella palude dei valori di questo tempo smarrito, a Genova prima e a Milano poi, è stato il riferimento di una Chiesa vicina agli ultimi, agli esclusi, alle fragilità e alle debolezze, capace di aprire le porte ai profughi e ai disoccupati, lanciando messaggi di fiducia e di speranza.
A Milano soprattutto è diventato il simbolo di un riscatto civico, quando la Lega sventolava striscioni con la scritta «vescovo di Kabul» e qualcuno chiedeva l’apartheid in metro. Tettamanzi riuscì a parlare con il cuore a una città che aveva perso un po’ della sua anima, a esorcizzare le paure trovando le risposte nel Vangelo, a chiedere alla politica non atti di egoismo ma di solidarietà. Era il 2009 e il Duomo sembrava un fortino assediato. Lui chiedeva a Milano di discutere di moschea e di nomadi, di ritrovare la vocazione di città dell’accoglienza, di tornare ad essere capitale morale. Ci fu un sussulto, una scossa, quasi la presa di coscienza di un antico ruolo, mentre il ministro leghista Calderoli chiedeva le sue dimissioni e il presidente Napolitano interveniva in sua difesa. In quei giorni il cardinale invitava i giovani a costruire una società meno arida e più umana, ammoniva i politici contro la corruzione, difendeva i disoccupati dicendo che «un uomo non è più un uomo se perde il proprio lavoro».
Teologo, ghost writer di encicliche, guardato con diffidenza dalle correnti progressiste e moderniste, considerato più un conservatore che un innovatore (anche se a Genova aveva lasciato «incursionare» un prete rivoluzionario come don Gallo e alla vigilia del G8 mostra attenzione ai fermenti anti globalizzazione) Tettamanzi a Milano si cala nel sociale, quasi come un parroco, un grande parroco nella diocesi più grande del mondo.
L’eredità con la quale si confronta è pesante. C’è il ventennio del cardinal Martini, un carisma enorme, un defensor civitatis destinato alla storia. Tettamanzi si muove senza complessi, offre alla città il suo sorriso da papa Giovanni, stringe le mani ai fedeli dopo la messa in Duomo (posso dimenticare un discorso, non una stretta di mano, dice) volta senza traumi la pagina che lo vede papabile in Conclave, nella geopolitica della Curia che sceglierà Ratzinger, e si concentra su Milano, sulla sua rinascita, sul suo ruolo di guida del Paese.
Lo fa con gesti veri, concreti, spiazzando, mostrando un amore vero per la città, andando nelle periferie, più reali che esistenziali. La cronaca, per chi scrive, diventa ricordo. Una sua intervista al Corriere fa nascere il Manifesto per Milano, un appello alle energie positive della metropoli disperse in tanti rivoli. La sua umanità fa dire un giorno al cardinal Martini che «Sant’Ambrogio ha fatto un miracolo, trasformando un conservatore in un innovatore». È più di un apprezzamento, è un grazie, che Martini gli regalerà in un telefonata a fine mandato, prima dell’arrivo del successore, Angelo Scola.
Si può dire che la sua svolta partecipativa ha dato una spinta alla vittoria di Giuliano Pisapia contro Letizia Moratti?, gli ho chiesto nel 2011, prima della sua partenza per il pensionato di Triuggio. «Passo per un politico, ma non faccio altro che leggere il Vangelo», ha risposto diplomaticamente. Aggiungendo questo, che vale ancora oggi: «La partecipazione dei cittadini ci dice che serve un rapporto più umano con la politica. Ognuno di noi deve poter dare qualcosa agli altri. Questa è la stagione della restituzione. Io da Milano ho ricevuto molto di più di quel che ho dato».
Umile, fino alla fine. Però mi spiace contraddirlo. Il cardinale Tettamanzi a Milano ha dato molto e ha restituito tutto.
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Dionigi Tettamanzi se n’è andato senza clamori e senza rancori, come era vissuto. Prete della Milano montiniana e conciliare, aveva studiato morale in tempi in cui a quel tipo di teologi il cattolicesimo vissuto domandava permessi e giustificazioni che oggi farebbero sorridere. Poi, nella stagione di Wojtyla, ebbe un percorso di carriera rapido e ripido: di quelli che spesso rivelano ambizioni che però non erano le sue. Fu arcivescovo ad Ancona per un anno e mezzo e subito segretario generale della Cei della presidenza Ruini, fra il marzo 1991 e l’aprile del 1995, nel tumultuoso passaggio dalla chiesa del collateralismo a quella della indulgenza per il proto- berlusconismo. Da lì andò a Genova, in un’epoca in cui esistevano le sedi “cardinalizie”, e ricevette la berretta nel 1998. Non era stato il successore diretto del cardinale Siri, ma era il primo e l’unico arcivescovo a misurarsi da fuori con l’impronta di colui che era stato definito il “delfino” di Pio XII e il riferimento di quel mondo reazionario che vedeva nel concilio un male, in Montini un nemico e in Moro un demonio.