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 2017  agosto 06 Domenica calendario

Più spettatori meno soldi, il governo oscura il teatro. Dei 100 milioni di contributi annunciati ne sono arrivati dieci

Chi ha ordinato di suonare il gong? Lo comanderò io, il gong, quando sarà tempo!», grida il dottor Hinkfuss, direttore di quel teatro dove accade l’impossibile inventato da Luigi Pirandello in Questa sera si recita a soggetto. Chi suona il gong nel teatro italiano del 2017? «Il pubblico, che continua ad aumentare, a cercare nelle nostre sale un luogo dove riflettere, crescere, anche divertirsi.
Ma sono anni duri perché le risorse calano, le opportunità per i giovani si sono ridotte, gli artisti lavorano in condizioni tali da offendere in molti casi la dignità professionale», dice Filippo Fonsatti, presidente di Federvivo, associazione che riunisce tutte le realtà dello spettacolo italiano, e direttore del Teatro Carignano di Torino.
Il potere delle lobby
Il nostro sistema teatrale, che da anni vede i finanziamenti pubblici calare e attende ansiosamente una innovativa legge sullo spettacolo, è ferito dal recente, inusitato voto del Parlamento a favore del Teatro Eliseo di Roma, una struttura privata: 4 milioni di euro all’anno per due anni. «Un finanziamento iniquo e opportuno – hanno scritto 40 teatri italiani ai presidenti di Camera e Senato e al ministro Pier Carlo Padoan – che risulta ingiustificabile da tutti i punti di vista e compromette l’equilibrio dell’intero sistema di assegnazione dei fondi». «Non sopporto i teatri che dovrebbero fallire ma vengono salvati perché sono amici degli amici. I politici travestiti da teatranti e i teatranti travestiti da politici. Non sopporto chi si attacca alle proprie poltrone e non dà spazio ai giovani. Lo spreco di soldi di certe cattive amministrazioni, la poca inclinazione a ragionare su modelli di business che possano garantire le repliche. Non sopporto il divario delle paghe degli attori e i giovani attori che lavorano gratis»: parole scolpite da Davide Lorenzo Palla, autore, regista e attore che stanco di non trovare spazi dove proporre i propri spettacoli si è inventato un modello di «fai da te» teatrale: è nata così la fortunata Tournée da bar, premio Rete Critica come miglior progetto di comunicazione teatrale, per la capacità di creare «una giocosa divulgazione culturale facendo crescere il pubblico». A sentire Palla e molti altri, mentre il governo voltava la testa dall’altra parte, il voto per l’Eliseo avrebbe confermato che nel nostro Paese, anche nel settore dello spettacolo, il potere delle lobby è spesso più forte di regole che vengono irrise: in questo caso la lobby trasversale dei parlamentari e degli ex parlamentari attenti alle richieste dell’ex deputato Luca Barbareschi, produttore e direttore dell’indebitato Teatro Eliseo.
Mancanza di progettualità
Il successo di Palla dimostra comunque che spesso le difficoltà stimolano l’ingegno, creando una sorta di aspra selezione naturale. Laura Palmieri cura Tutto esaurito!, il programma di Rai-Radio Tre che, stagione dopo stagione, con ormai centinaia di spettacoli mandati in onda, è un osservatorio privilegiato sullo stato di salute del nostro teatro: «Gli aspetti critici non riguardano la creatività: in questi anni abbiamo incontrato quasi esclusivamente compagnie che credono nel loro lavoro e che sanno resistere alle difficoltà economiche e alla mancanza di una politica culturale di sostegno. Spesso a latitare sono gli spazi adeguati e il tempo necessario per le prove».
Paghe ridotte all’osso
«Dei 100 milioni annunciati come integrazione al Fondo Unico dello Spettacolo ne sono arrivati 9,5. Oggi il Fus è pari allo 0,026% del Pil: in 15 anni è diminuito in valori reali di oltre il 50%. Inoltre i finanziamenti vengono erogati anche con anni di ritardo. Un abisso rispetto ai Paesi dell’Unione Europea, tanto che è imbarazzante co-produrre con l’estero: non sappiamo quando potremo onorare i debiti. Nel nostro comparto l’Europa viaggia a due velocità e noi siamo nei vagoni di coda, anche per la burocrazia che ci soffoca, per le norme spesso in contraddizione», constata Fonsatti. Rosa Maria Di Giorgi, vicepresidente del Senato, relatrice della proposta di legge relativa al nuovo Codice dello Spettacolo dal Vivo, ammette che la commissione Bilancio del Senato ha fortemente ridimensionato il previsto incremento del contributo – «che comunque aumenta rispetto agli anni precedenti» – ma sottolinea gli aspetti innovativi del provvedimento, che andrà in aula a settembre: «Lo spettacolo dal vivo è finalmente considerato come elemento identitario della crescita civile della nazione. Viene premiata la qualità dei progetti, si favorisce la formazione di chi ha meno di 35 anni e lavora nei mestieri dello spettacolo. Ogni anno 5 milioni di euro sono destinati a produzioni che coinvolgono le nostre scuole e l’Art Bonus viene esteso a tutti i soggetti che operano nello spettacolo. Su questa legge c’è un largo consenso, l’abbiamo costruita accogliendo i suggerimenti dell’opposizione». Antonio Calbi è direttore del Teatro di Roma dal 2014, dopo la non memorabile gestione di Gabriele Lavia. In tre anni ha portato gli spettatori da 60 mila a 190.000, triplicando gli abbonamenti, che oggi sono 15 mila. «Come prima idea, abbiamo realizzato un Ritratto di Roma: un affresco corale con più di cento attori, registi, videomaker, musicisti coinvolti, che ha restituito in scena la verità dolente della città, la sua bellezza infranta. Un progetto che ha rappresentato il nostro manifesto politico e culturale, ovvero aprire ancora di più il Teatro alla città e far arrivare la Città in teatro. Lo scorso anno abbiamo meritato il Premio Anima per il Sociale, conferito dagli industriali di Roma, proprio per aver trasformato il teatro in un’agorà civile e culturale. Ora stiamo preparando Ritratto di una Nazione – L’Italia al lavoro, con venti testi in arrivo dalle nostre venti regioni su un tema scottante come il lavoro. Nel frattempo stiamo imparando a fare di più con minori risorse: abbiamo completamente perduto il contributo del Comune di Roma». Parlare del presente, dei suoi problemi, della vita reale delle persone. Il pubblico chiede questo? «Mi dicono che faccio politica perché nei miei spettacoli parlo di operai, barboni, immigrati, disagiati psichici. Lo faccio perché ritengo che l’arte debba raccontare la condizione umana. E io la trovo, senza i fronzoli del vecchio teatro. Il resto è lavoro di giornalisti o di tribunali», racconta Ascanio Celestini che ormai da 20 anni con i suoi spettacoli racconta, da indipendente, la necessità della memoria collettiva e osserva la povertà, il disagio, la follia. «Facciamo spettacoli ovunque, in teatri grandi e piccoli, in spazi occupati, nei centri storici e nelle periferie delle città. I teatri non hanno bisogno di grandi cifre per la loro attività».
Dominio dei manager
I dati diffusi dalla Siae per il 2016 dicono che gli spettacoli più amati sono stati lavori tutt’altro che commerciali e che richiedevano al pubblico una forte attenzione critica: La morte di Danton, il dramma di Georg Büchner con la regia di Mario Martone; Ragazzi di vita, dal romanzo di Pasolini con la regia di Massimo Popolizio; Lehmann Trilogy, il libro di Stefano Massini diventato spettacolo grazie a Luca Ronconi. «Il grande teatro deve essere popolare. Deve parlare agli uomini e alle donne di oggi, interagire con loro. Non immagino un teatro d’élite, ma popolare in senso alto, come lo erano Mozart e Shakespeare. Ho molta stima dell’intelligenza del pubblico»: attore, regista, direttore artistico del Teatro di Dioniso, premio Flaiano 2017 per l’inventiva regia di Venere in pelliccia, dal 2010 direttore della Scuola per attori dello Stabile di Torino, Valter Malosti teme soprattutto un pericolo: «Purtroppo si sta consolidando l’idea che a dirigere i teatri siano i manager a cui si affianca un artista e non il contrario, come dovrebbe essere. Questo rende il tutto più una pratica contabile che una reale ricerca. Il teatro è poesia diretta, è esistito ed esiste grazie al talento di artisti che hanno operato e operano una continua resistenza». Perché quel gong continui a suonare.