Il Sole 24 Ore, 7 agosto 2017
Quella sporca risalita dei rifiuti verso il Nord
La cosa meno sporca delle altre, in questa storia, è che le centinaia di tonnellate di rifiuti che per un biennio hanno risalito l’Italia dalla Campania alla Lombardia – e che senza venire trattate venivano smaltite negli inceneritori o in discarica – non erano pericolose. Un classico “giro bolla”, et voilà, il gioco era fatto. Ci fosse stato anche l’aspetto della pericolosità o della “specialità”, l’indagine della Direzione distrettuale antimafia di Brescia, venuta alla luce esattamente un mese fa, avrebbe avuto un odore ancora più spiacevole.
Per rendere comunque la storia un segno dei tempi, può bastare quel che a luglio il Noe (Nucleo operativo ecologico) dei Carabinieri di Milano ha scoperto con professionalità. Anche se, come sempre, è bene ricordare che questa è la fase preliminare e non c’è ancora stato un avviso di conclusione indagine, una richiesta di rinvio a giudizio, un processo e dunque neppure una condanna e che molti indagati o società coinvolte si sono affrettati a proclamare la propria innocenza e correttezza.
I rifiuti non ridiscendono più la penisola, come accadeva negli anni Ottanta e Novanta, per finire sotterrati in gran parte in Campania, ma compiono il tragitto contrario. Si tratta di uno dei primi casi – se non il primo – nel quale un’indagine giudiziaria dimostra l’inversione dei flussi dell’immondizia. Anche per questo sarà interessante seguirne gli sviluppi.
Da Giugliano – che con Qualiano e Villaricca forma il cosiddetto triangolo maledetto della Terra dei fuochi tra la provincia di Caserta e quella di Napoli – e da Tufino, sempre in provincia di Napoli, altro Comune nel passato devastato da interramenti di ogni tipo, tra il 2014 e il 2015 un migliaio di tonnellate di rifiuti è stato smaltito, dopo vari giri di fittizio trattamento, nel bresciano, nel pavese, nel lecchese e anche nell’alessandrino, dunque tra Lombardia e Piemonte.
Il caso che è saltato all’occhio nel corso delle investigazioni del Noe è stato quello in base al quale, dopo che Sapna, la municipalizzata “sistema ambiente” della Provincia di Napoli, aveva bandito cinque gare, dapprima i rifiuti venivano fittiziamente trattati da alcuni impianti, poi in gran parte depositati a Rezzato, in provincia di Brescia, per far perdere la tracciabilità dei flussi, infine da qui conferiti a discariche o altri impianti. Quei rifiuti, compattati e messi in tondo fino a trasformarsi in una matassa, non erano altro che le classiche e tristemente famose “ecoballe” campane che di ecologico nessuno ha mai capito cosa avessero.
Non solo Giugliano e Tufino, però. I rifiuti provenivano anche dal Lazio e dunque anche questo è un traffico che si aggiunge alla rotta inversa del circuito ambientale e commerciale dei rifiuti, così come si conosceva fino a qualche anno fa.
Ma la nemesi storica – anche se, invero, quello che è accaduto non può essere considerato come un atto di giustizia compensativa, bensì come l’ennesimo sfregio all’ambiente e alla concorrenza leale – ha in sé altre caratteristiche proprie di quanto, negli anni Ottanta e Novanta, accadeva in Campania.
Oltre al numero elevato di indagati (26, alcuni dei quali accusati di associazione per delinquere finalizzata al traffico dei rifiuti) tra i quali spiccano imprenditori, manager di aziende private e pubbliche, oltre che amministratori locali, ci sono infatti il senso per gli affari, il costante danno gestionale e l’immancabile classico: gli incendi.
Il senso per gli affari era ben sviluppato. Basti pensare che, secondo l’accusa, la filiera avrebbe assicurato complessivamente un giro d’affari di 10 milioni in un paio d’anni, buona parte dei quali finiti ad arricchire le tasche degli indagati.
Bene ha fatto il Gip del Tribunale di Brescia, Alessandra Sabatucci, che ha firmato l’ordinanza, a sottolineare, unitamente alla Procura (pm Silvia Bonardi e Francesco Piantoni, ora rispettivamente a Milano dal 16 gennaio e a Roma da settembre 2016) e al Noe, che questo sistema “cartolare” di trattamento dei rifiuti, in base al quale anziché essere trattati, i rifiuti finivano in discarica “tal quali”, alterava la concorrenza e il libero mercato. I risparmi sui costi, garantiti da questo meccanismo, consentono infatti di partecipare alle gare con significativi ribassi d’asta, difficilmente sostenibili dalle imprese che operano nella legalità.
Il danno gestionale per l’ambiente è anch’esso notevole e, ancora una volta, viene sottolineato nell’ordinanza. Gli inquirenti, infatti, hanno ipotizzato che attraverso quella filiera insana venisse aggirato il principio di tracciabilità dei rifiuti, sancito dal codice dell’ambiente e, di conseguenza, l’autosufficienza regionale, derogabile solo a condizione che la provenienza dei rifiuti extra-regionali sia correttamente tracciata.
Infine – ed ecco che il cerchio con le similitudini si chiude – va ricordato che l’indagine è nata da un rogo. Non quello dei rifiuti, come accadeva e accade ancora nella cosiddetta Terra dei fuochi, ma quello generato e spento il 15 ottobre 2014 all’interno di un capannone di Rezzato. Il consulente nominato dalla procura di Brescia annotò che, sebbene la società fosse autorizzata dalla Provincia di Brescia alle operazioni di “messa in riserva” dei rifiuti speciali non pericolosi, nel corso del sopralluogo non era stata rilevata la presenza di alcun macchinario per il trattamento o il confezionamento dei rifiuti. Nonostante nel capannone ci fossero 100 tonnellate di rifiuti confezionati in balle e altre 200 tonnellate senza imballo.