Il Messaggero, 7 agosto 2017
«Mi dicono antipatica perché difendo i deboli». Intervista a Fanny Ardant
Accanto a una via molto trafficata a nord di Parigi, c’è un’oasi di tranquillità e memoria: il cimitero di Montmartre, ai piedi della celebre collina degli artisti. Sotto una lapide di marmo nero molto semplice, riposa François Truffaut, uno dei più amati, sicuramente fra i più rimpianti registi della nouvelle vague, a oltre trent’anni da una morte molto prematura. Impossibile visitare quel luogo senza trovare qualche lettera a lui indirizzata, da appassionati di ogni parte del mondo. I più accorti le avvolgono in una bustina trasparente, consapevoli del clima parigino. Tutte raccontano come il regista de I quattrocento colpi abbia cambiato loro la vita.
È accaduto anche a Fanny Ardant, sua compagna all’inizio degli anni 80, nonché musa nei suoi due ultimi film: La signora della porta accanto, con Gerard Depardieu, e subito prima Finalmente domenica!, a fianco di Jean-Louis Trintignant. «Di quel film ricordo l’allegria, come se tutto il film fosse un bicchiere di champagne», dice ora la Ardant tornando al Festival di Locarno con un ruolo inedito per questa icona di eleganza: quello di un transessuale, in Lola Pater.
«Non mi sono mai amata fisicamente, mi sono costruita con gli anni, non ho lasciato fare alla natura, quindi posso capire la sofferenza e l’energia necessaria. Girando questo film mi sono resa conto quanto sia difficile definirci, quanto siano sciocchi i luoghi comuni sul genere. Il fatto che sia un uomo che diventa donna è solo una curiosità che si supera in due minuti, quello che mi entusiasma è la sua passione, vulnerabile e al tempo stesso violenta».
Lei ha sempre rivendicato la libertà di esprimere opinioni anche scomode, come quando definì un eroe Renato Curcio o la stampa francese russofoba.
«Prendo la parola per difendere delle cause umane, se ci fa caso, più che politiche, come il mio impegno a favore delle comunità rom. Non mi interessa essere incompresa o scontentare delle persone; di fronte ad alcune ingiustizie tacere ti rende complice. Mi mandano anche lettere di insulti, ma per me la cosa più interessante della vita è la dialettica, per cui parliamone. A volte la mia famiglia mi dice che è meglio se sto zitta, ma qualche volta è più forte di me».
Pensa sia possibile cambiare, nel corso della vita?
«Certamente. Siamo tutti seduti intorno a un tavolo giocando a poker, puoi decidere se rimanere e giocare con le carte che hai o scappare. Ho visto vincere con una coppia di 10, basta avere l’energia di non subire. La vita è breve e puoi identificarti come una vittima o rifiutare di esserlo. Ho sempre avuto in testa, fin da bambina, la favola di Jean de La Fontaine Il lupo e il cane. La maestra a scuola ce la raccontava sapendo che fra noi allievi ci sarebbero stati dei cani e dei lupi. Il mondo lascia spazio a tutti, sta a noi decidere. Sono contenta di venire a Locarno, perché si mostrano, in una piazza piena di migliaia di persone, piccoli film che ti forzano a pensare, a guardare verso altre verità».
Pensa che il cinema possa cambiare la vita?
«Credo che cinema e letteratura abbiano preso il posto del prete. Un giovane guardando film di ogni epoca si costruisce una morale, sceglie come schierarsi, le cose che non farà mai o quelle che in fondo potrebbe provare».
Come mai ancora oggi tanti giovani hanno un rapporto speciale con il cinema di François Truffaut?
«Per il suo modo molto semplice di raccontare delle storie che sembravano rivolgersi proprio a te, arrivava subito all’essenziale senza essere mai troppo di moda; storie perfette per una gioventù tormentata o malata di solitudine. Il più grande dono per un regista è cogliere l’essenziale della vita».
Cosa pensa del cinema di questi anni?
«Il mondo è cambiato, è tutto e solo capitalismo selvaggio, non c’è più morale, contano i soldi e il consumo. Rimane la piccola repubblica underground del cinema, pur con tante difficoltà e l’ambiguità che è sempre esistita fra cinema come arte e come industria. Oggi vai a parlare con dei produttori e ti chiedono per quale fascia d’età è adatto il film. Le cose vere, quelle che ho sempre amato, sono clandestine, quelle di cui i giornali parlano meno. Quando vedo in libreria il settore i più venduti scappo, è folle. È questo il pericolo che corriamo».
Lei ha lavorato con attori come Vittorio Gassman e Marcello Mastroianni, coincidono ancora i grandi attori con le grandi star?
«Sono due cose diverse, ci sono attori visti come icone e bravi attori che nessuno conosce. Il fatto che tu sia conosciuto non vuol dire niente. Ho visto un film italiano, Perfetti sconosciuti, in cui tutti gli attori sono molto bravi. Questo conta. Anche se oltre frontiera non sei molto noto».
Un luogo comune vuole che una grande attrice invecchiando debba affrontare la solitudine, amplificata da molti anni di carriera e notorietà. Lei ne ha paura?
«Sono sempre stata una solitaria, fin da molto giovane. C’ero sempre io, e poi il mondo. Non ho mai voluto veramente far parte di un gruppo o essere accettata dalla società, pensando che lo sguardo della società poteva essere un pericolo, limitare la tua libertà. Penso che la solitudine sia come arruolarsi nell’esercito: ogni tanto sei di guardia e ogni tanto a riposo, va e viene. Quello che alla fine ti salva è l’energia, anche se hai una visione nera delle cose. Sappiamo già che tutto finisce male, che salendo sul ring un giorno riceverai un pugno da k.o.».
Visto il suo interesse per la politica, ha mai pensato a un suo coinvolgimento diretto?
«Ho pensato a due altri mestieri che avrei potuto fare: la parrucchiera o la coltivatrice di olive. La parrucchiera quando mi sento sociale, lasciando le olive a quando mi sento molto asociale. Valorizzare la ricchezza della terra è fantastico, ma fare il vino è troppo difficile. Come parrucchiera mi vedo in un piccolo paese, non vicino al mare né a una grande città. Certo non a Parigi, dove le donne sono cattive».
Lei ha tre figlie. Una buona madre deve sacrificare il suo essere donna?
«Non basta essere genitore, rimani donna o uomo con una vita e un destino. Da giovane chiesi al pediatra se dovevo smettere di lavorare, lui mi rispose di no, che un bambino non ti dice
mai grazie per esserti sacrificata. La prima responsabilità dei genitori è proteggere i propri figli, fornendo cose basiche come un tetto, dei vestiti; la protezione dell’animale verso i cuccioli».
Per lei un giorno di festa ideale è quello trascorso con le sue figlie e la sua famiglia?
«Assolutamente sì, ho un’idea molto forte della famiglia, quella da cui provengo e quella che ho costruito. È strano, perché detesto i gruppi o i partiti politici. Arrivo fino al punto di dire che la famiglia deve proteggerti anche contro la legge. Difendo un figlio se ha commesso un crimine, non chiamo la polizia. È un bel dibattito, non trova? L’uomo è un cittadino prima di essere un animale?».